Star Trek Discovery: prime impressioni dopo il doppio episodio pilota

Dopo dodici anni finalmente ritorna in TV una serie di Star Trek. Abbiamo visto i primi due episodi trasmessi da Netflix.

Star Trek Discovery: prime impressioni dopo il doppio episodio pilota
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Anno 2256, in un luogo imprecisato oltre i confini della Federazione dei Pianeti Uniti, T'Kuvma è pronto ad incensarsi del ruolo di riunificatore delle ventiquattro casate Klingon, con l'intento di entrare in guerra contro la Federazione e riaffermare la propria individualità e superiorità politica e culturale. La USS Shenzhou sarà la prima nave ad imbattersi in questa nuova minaccia, scatenando gli eventi che percorreranno tutta la serie. Dopo dodici anni torna nel suo ambiente naturale, la tv, la saga sci-fi più influente e longeva della televisione (Non ce ne voglia il Doctor Who, che inseriamo in un filone leggermente diverso), e lo fa in maniera quanto meno accattivante. I primi due episodi lanciati da CBS, e da Netflix in Italia, servono da lungo prologo all'intera vicenda, ponendo le basi per quel che ci aspetterà senza però fornirci indicazioni precise sulla struttura narrativa e i possibili plot futuri. L'impressione fin da subito è quella di aver voluto creare un pilot "indipendente", ma che contenesse in sé sprazzi di quello che potrebbe essere Star Trek: Discovery, una sorta di dichiarazione d'intenti. Al termine della visione dei due episodi, infatti, quello che prima di tutto ci rimane impressa è la volontà da parte dei due co-creatori Bryan Fuller e Alex Kurtzman di fare di Discovery una serie moderna, al passo con in tempi, in grado di poter competere con i colossi della televisione attuale, pur nel rispetto di una tradizione tanto vasta quanto delicata come quella di Star Trek. Ma andiamo con ordine.

Il nuovo fascino di un vecchio mito

Visionarietà, immaginazione, meraviglia, sono sempre stati i punti fondanti della serie, e non poteva essere altrimenti visto il soggetto di base, ovvero la scoperta e l'esplorazione di mondi sconosciuti. Nel pieno di questo spirito la prima cosa che balza all'occhio è l'imponente comparto estetico, che se si confermerà di livello durante tutti e tredici gli episodi potremo tranquillamente considerarlo tra i più ispirati degli ultimi anni. Non è un caso se consideriamo il lavoro che Fuller ha messo in piedi anche nel recente American Gods; così come non è un caso se ciascun episodio è costato circa 8.5 milioni di dollari, cifre paragonabili a quelle che HBO mette in campo per un Game of Thrones o un Westworld. Che lo sforzo produttivo sia enorme lo si nota dalla bontà della CGI, dalla cura nei design di personaggi e navi, così come dalla promessa di ambientazioni mozzafiato.

Promessa perché al momento si è tutto bene o male svolto nello spazio, e nelle navi, ma ci sono stati pochi minuti sulla superficie di un pianeta, e la resa è stata magnifica, con un'apertura che ci fa veramente ben sperare. Insomma, questo Discovery è sicuramente un bel vedere, con un'estetica accattivante e ipermoderna (da segnalare soprattutto il bel re-design dei Klingon, che acquisiscono nuova linfa), nonostante sia indiscutibile un certo ricordo del gusto che J.J. Abrams ha portato nella saga cinematografica, tra uniformi cromate e lens-flare. Questo di per sé non è un male, soprattutto considerando la rielaborazione assolutamente personale e coerente che di quel materiale si è fatta.

"Remain Klingon"

L'altro punto focale che storicamente ha elevato la serie, è il ruolo di rilevanza e coraggio che politicamente e socialmente ha sempre assunto sin dagli esordi. Ancora una volta un sottotesto di attualità è facilmente leggibile nel motto "rimaniamo Klingon" che durante i sue episodi sentiamo spessissimo. Quello dei Klingon è infatti è un sommovimento di orgoglio "nazionale" e razziale, di riaffermazione della propria individualità culturale contro i globalizzanti motti di pace della Federazione. Non è difficile leggerci dentro un riferimento al "make America great again" o ai risultati della Brexit. Proprio i Klingon sono quelli che più sorprendono, con uno spazio consistente nell'economia della narrazione e che li vede di fatto protagonisti a loro volta (piccola curiosità, su Netflix potete scegliere il Klingon tra le lingue dei sottotitoli), con un'alternanza nella focalizzazione che passa in tutta scioltezza dalla solita nave della federazione all'ammiraglia Klingon per una piacevole come inaspettata bipolarità.

Ma arriviamo finalmente alla "solita" nave, la USS Shenzhou, prima di tutto con una novità: la protagonista principale, Michael Burnham, interpretata da Sonequa Martin-Green (la Sasha WIlliams di The Walking Dead), non è il capitano di una nave, o almeno non per il momento. Per quanto probabilmente si percepisca meno coralità rispetto al passato, con un'importanza più marcatamente rilevante del comandante Burnham, le interazioni "quotidiane" tra l'equipaggio sono di una rara piacevolezza, con dialoghi brillanti e leggeri, che veramente ci danno l'impressione di comunità e intimità tra vecchi membri di una ciurma, con una menzione particolare per Saru, un Kelpien la cui personalità ci sembra un misto tra uno Spock e un Data, e che vede Doug Jones (l'Abe di Hellboy e il Fauno del film di Guillermo Del Toro) ancora una volta nascosto dietro una maschera mostruosa. Insomma, nonostante non sia esente da difetti e imprecisioni, riscontrabili anche nella lore dell'universo Star Trek, la prima visione è convincente, ci promette uno sviluppo e una profondità interessanti, oltre che un'impianto immaginifico all'altezza.

Resta solo da vedere se queste promesse, accennate qua e là, verranno veramente mantenute. Perché se così fosse potremmo avere veramente una rinascita di un brand storico, e una bella serie di fantascienza in generale; al contrario, dovesse esserci un passo falso, anche il più piccolo, il capitombolo potrebbe essere mortale, perché più in alto si vola più la caduta può far male. E poi con i trekker non si scherza mica.