Mindhunter, nella mente dei serial killer: Recensione della prima stagione

David Fincher produce e in parte dirige questo crime drama dalla scrittura raffinata e brillante, forse uno dei migliori prodotti mai visti su Netflix.

Mindhunter, nella mente dei serial killer: Recensione della prima stagione
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Sembra che tre sia il numero perfetto, o almeno lo è per David Fincher. Il grande e amatissimo autore americano mancava infatti dalle scene sin dal 2014, anno del suo L'Amore Bugiardo con Ben Affleck, che resta al momento il suo ultimo titolo cinematografico all'attivo, pensate un po', uscito proprio tre anni dopo Millennium. I mesi successivi alla release di quel thriller morboso e di successo hanno poi visto il naufragare violento di molti suoi progetti, curiosamente solo ed esclusivamente pensati per la TV, che erano il remake USA dell'ottima Utopia di Channel 4 e Video Synchronicity, dramedy ambientata nel mondo della musica e dei videoclip dai tratti autobiografici.
Entrambe le idee erano in sviluppo per la HBO, che a quanto pare ha preferito stopparne la produzione prima del tempo, sia per divergenze creative sia per mere questioni di budget. In modalità homeless, con due idee rifiutate e altrettante regie declinate per il cinema, Fincher si è così ritrovato spaesato, almeno finché non gli è capitato tra le mani questo Mindhunter, crime drama ideato da Joe Penhall (sceneggiatore di The Road) e prodotto da Jim Davidson per Netflix, il tutto basato sull'omonimo libro scritto da Mark Olshaker e John Douglas. Il regista di The Social Network così non solo ha deciso di dirigere 4 episodi dei 10 totali della serie, ma anche di entrare a gamba tesa nel progetto come produttore esecutivo insieme a Charlize Theron, mettendoci faccia e nome, lo stesso che i fan dell'autore aspettavano da tempo di rivedere legato a un titolo di grande rilevanza e ambizioni risonanti. E Mindhunter proprio questo è: un thriller che non ha nulla di classico se non la raffinatezza asettica della messa in scena, con un struttura se vogliamo anche innovativa e con un bilanciamento dialogo-azione praticamente ridotto a zero, che è poi forse la vera carta vincente di quella che è con tutta probabilità una delle migliori serie mai prodotte da Netflix.

Metodologia di un Predatore

Come dicevamo, la serie è basata sul libro di John Douglas, che è una vera e propria raccolta di memorie, ma non nel senso specifico del termine. I suoi scritti parlano del suo passato come investigatore speciale dell'FBI, ruolo grazie al quale è passato alla storia come uno dei primi e migliori criminal profiler di sempre. Partendo dalla fine degli anni '70 fino ai nostri giorni, infatti, proprio grazie al suo talento e a quello del collega Robert Ressler è stato possibile creare dei profili specifici per determinate categorie criminali, appositamente intervistati e studiati per capirne la metodologia predatoria e carprine i macabri retroscena. In parte giustamente ma coerentemente romanzata, la serie racconta così proprio il lavoro e le sfide personali di questi due grandi agenti, interpretati rispettivamente da Jonathan Groff e Holt McCallany. I nomi sono stati però cambiati in Holden Ford e Bill Tench, così come quello dell'illustre Dottoressa Ann Wolbert Burgess è mutato in Wendy Carr, personaggio interpretato da un'ottima Anna Torv, che i fan di Fringe saranno lieti di ritrovare in forma smagliante in un ruolo davvero molto adatto alle sue corde. Con uno stile che ricorda quindi da vicino la disamina filmica fatta proprio da Fincher su Zodiac, Mindhunter è nella sostanza la storia di come, criminale dopo criminale, si sia arrivati ad adottare terminologie adeguate per riconoscere quelli che oggi chiamiamo serial killer, assassini al tempo ritenuti semplicemente pazzi e che si pensava agissero senza un chiaro modus operandi né ragione, cosa che invece il libro come la serie tenta di smentire su basi storico-psicologiche nonché analitiche molto chiare. Con una scrittura prettamente improntata sul dialogico, la narrazione procede ovviamente lenta ma scandita da scambi di battute citazionisti e pungenti, sia tra i tre protagonisti che tra Holden e la ragazza (una bravissima Hannah Gross), ma, inutile specificarlo, soprattutto tra i due detective e i vari serial killer da loro ascoltati, vero perno della serie.

La storyline orizzontale di Mindhunter è infatti esclusivamente lo studio attivo e preciso della psicologica criminale, partendo dalle scienze comportamentali fino all'approfondimento psichiatrico dei soggetti esaminati, ma viene costantemente invasa da quelle orizzontali dei criminali, che uno dopo l'altro riveleranno a volte con ingenuità e altre con semplice inconsapevolezza le ragioni dietro ai loro efferati omicidi. Ogni rivelazione, ogni piccola parola degli assassini è inoltre scevra da qualsiasi tipo di censura, lasciando quindi fluire insieme ai loro contorti o affascinati (ebbene sì!) discorsi anche tutto il malessere delle loro vite, esploso poi in un lucida e controllata furia omicida priva di rimorsi.

Gatto e Topo

È vero, i nomi dei protagonisti sono stati cambiati, ma showrunner e produttori hanno deciso di mantenere invece quelli reali dei serial killer, anzi scegliendo degli attori caratteristi il più possibile simili fisicamente ai personaggi da loro interpretati. Ed è così che Mindhunter mette in scena la più grande e brillante sequela di assassini mai vista al cinema o in tv, che va da David Berkowitz a Charles Menson (in realtà solo citati), da Richard Speck a Jerry Brudos fino a Monte Ralph Rissell e, dulcis in fundo, all'efferatissimo omicida-necrofilo Edmund Kemper. Non trattandosi di un'opera di finzione, deve essere assolutamente chiaro che ogni dettaglio riportato da questi personaggi è realmente accaduto, anche se non sono in realtà molto chiare le modalità di ammissione ai detective di tali dettagli, fattore che poi Mindhunter ha cercato di portare in tv nel modo più appassionante e appagante possibile. Improbabile se non impossibile provare quindi empatia anche per uno solo di loro, che va però ben distinto dal restare intontiti e ammaliati dal macabro e sublime fascino criminale delle loro menti malate.

È poi forse grazie alla regia di Fincher, così immerso nel genere thriller, che anche una sceneggiatura tanto dialogata e povera d'azione riesce comunque a mantenere vivissime tensione e inquietudine senza eccessi, priva di ritmo se non quello che asseconda il crescendo oratorio di Ford e Tench negli incontri e nelle fasi indagatorie. Come dicevamo, infatti, Mindhunter ha cercato di romanzare in parte il libro di Douglas, creando delle piccole storie crime adatte all'evoluzione del loro studio, che si risolveranno nell'arco di una o due puntate al massimo ma decisive al risultato finale nell'economia della serie.
Sia con i veri ciminali ritratti negli episodi che in quelli scritti appositamente per l'adattamento televisivo, gli investigatori giocheranno costantemente con loro come il Gatto fa col Topo, con lo scopo di stanare intelligentemente il loro vero Io nascosto, assecondando anche esplicitamente alcune insane pulsioni sessuali per analizzarne la genesi e comprenderne così il necessario sconfinamento nell'atto di uccidere. E tra tutti questi serial killer psicopatici, il più interessante, meglio sfruttato e ritratto è Kemper, nei cui panni troviamo il semi-sconsciuto Cameron Britton, che in Mindhunter regala una performance magistrale all'insegna dell'atarassia emotiva, controllatissima e marcatamente terrificante.
Come vale poi per ogni serie d'autore, i tratti stilistici introdotti nei primi due episodi da Fincher vengono ampiamente rispettati e anzi riadattati a seconda delle esigenze dagli altri registi coinvolti nel progetto, che sono Asif Kapadia (Amy), Tobias Lindholm (The Commune) e Andrew Douglas (Amytiville Horror), tutti davvero molto preparati e attenti a non depauperare la portata espressionista di Fincher. In definitiva, l'invito a sopperire all'ansia e a dare uno sguardo a una serie tanto innovativa a modo suo, bella e complessa come Mindhunter è più vivo che mai, perché si parla di uno dei prodotti più raffinati e forse necessari di questo 2017, che assecondando i moti psicotici e malsani dei personaggi che racconta può benissimo definirsi la Killer App annuale di Netflix.

Mindhunter - Stagione 1 Con Mindhunter Netflix regala uno dei prodotti più complessi, a proprio modo innovativi e affascinanti dell'intero panorama televisivo odierno. Grazie a una messa in scena dal colpo d'occhio classico e molto asettico, Fincher riesce a catturare tensione e inquietudine di una storia fatta di storie insane e malate, raccontando con un'attenta disamina storico-psicologica l'identificazione di un nuovo tipo di assassino, il cosiddetto serial killer. A brillare sono inoltre gli interpreti, con un plauso speciale che va al semi-sconosciuto Cameron Britton nei panni di Edmund Kemper, che cattura la scena e incanta lo spettatore con una performance da brividi. Se cercate la killer app seriale di questo 2017, questa è la risposta.

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