Speciale House of Cards

Frank Underwood sta per tornare: ecco cosa hanno significato le prime due stagioni di House of Cards

Speciale House of Cards
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All’epoca non eravamo ancora molto abituati al “metodo Netflix”; per noi una serie tv portava con sé la sofferenza indomabile e l’attesa implacabile della puntata successiva, settimana dopo settimana, un lento stillicidio che ci accompagna per mesi e ci porta all’esaurimento nervoso quando le conclusioni di alcune puntate si arricchiscono di una tale suspense da essere seguite col consueto “Oooooooooh” di delusione, all’apparire dei titoli di coda.
Chi ha avuto la possibilità di vedere House of Cards in streaming grazie a Netflix non potrà mai dimenticare la differenza: il 1 febbraio 2013 la società statunitense caricò per i propri abbonati l’intera prima stagione, 13 episodi da 55 minuti l’uno, bissando il 14 febbraio dell’anno seguente con la seconda stagione. Una pratica a cui non eravamo ancora abituati e che ci ha subito fatto capire la differenza fra la distribuzione televisiva e la strategia di un servizio di streaming. Attorno allo show serpeggiava eccitazione e aspettativa da prima del suo debutto, complici gli interpreti d’eccezione (Kevin Spacey e Robin Wright, ma anche Kate Mara e Michael Kelly) e alcune celebri firme alla regia (David Fincher e Joel Schumacher e, nella seconda stagione avrebbe chiamatodietro la macchina da presa di una puntata anche Jodie Foster e la stessa Robin Wright).
Ad oggi, House of Cards è riconosciuta come uno dei migliori serial degli ultimi anni, ecco perché.

CONTE DI MONTECRISTO

La serie di Beau Willimon comincia col botto (di Capodanno 2013, per la precisione): le elezioni si sono appena concluse e si festeggia l’elezione di Garrett Walker a Presidente degli Stati Uniti. Ruolo determinante nella vittoria del partito democratico è stato giocato da Frank Underwood (Kevin Spacey), capogruppo di maggioranza al Congresso che ha condotto Walker alla vittoria, in cambio della nomina a Segretario di Stato.
Una nomina che non arriverà mai: l’amara sorpresa del deputato Underwood arriva il primo giorno di lavoro, alla scoperta che il neo-presidente ha preferito Michael Kern come segretario di stato. Ma Frank ha la prontezza di seppellire il rancore e l’orgoglio dietro un pragmatismo spietato e una pazienza metodica: docile cane da guardia alle apparenze, mastino dietro la maschera. Quel giorno Frank Underwood promette vendetta all’establishment che è venuto meno alla propria parola, dando inizio a una complessa serie di mosse silenziose degne di un "Conte di Montecristo" del Campidoglio.
House of Cards è forse il più vivido racconto contemporaneo sul potere, un compendio di sotterfugi e ragnatele invisibili che muovono le corde della scena istituzionale e della sfera pubblica. Si inserisce nel solco tracciato da una miniserie della BBC andata in onda nel 1990, tratta dall’omonimo libro del politico britannico Michael Dobbs (primo di una trilogia a sfondo thriller-politico), del quale Willimon cura un riadattamento per il quadro geopolitico a stelle e strisce audace e coinvolgente. Fra voci di corridoio, capri espiatori e relazioni adulterine, manipolazioni mediatiche e sfumatura verbali, lo show insegna qualcosa non solo sul sistema politico, ma soprattutto sulla struttura mediatica e sulla “creazione” del pensiero popolare. Non è un caso che Fincher sia uno dei produttori esecutivi (oltre allo stesso Spacey): il suo ultimo film, il tanto acclamato Gone Girl, sceglie una prospettiva diversa per esplorare a sua volta i rapporti di potere mediatici e la distorsione dell’opinione pubblica.

Fra TWEET e KNOCK KNOCK

Cinguetti, messaggi, operazioni nell’ombra e forzature alla luce del sole: i media sono i primi protagonisti della versione statunitense di House of Cards. Lo scacchiere politico è fatto di alfieri e cavalli mediatici, e non a caso la narrazione procede parallela a quella dell’ambiziosa giornalista Zoe Barnes (Kate Mara) e della moglie Claire Underwood (la magnifica Robin Wright), a capo di una società no-profit a fini sociali.
A tirare le fila del grande carro affrescato dalla penna di Beau Willimon è il fortissimo carisma di Kevin Spacey, attore consacrato dal cinema e che non ha tardato a cogliere le potenzialità dell’attuale “età dell’oro” dei serial televisivi: il suo Frank Underwood è spietato, un anti-eroe nel pieno senso del termine, che ci trascina nel tunnel degli errori e delle manipolazioni. Ci rivolge direttamente la parola, con lo sguardo in camera e il suo tono stentoreo, facendo da cantastorie e rivelandoci i suoi pensieri, ma con le sfumature e una potenza mai viste prima: abbandonati i classici discorsi-racconto, Underwood scocca un’occhiata rapida mentre è furiosamente in movimento, ci avvelena con una frase, a volte solo con un’espressione del viso, mentre talvolta si prende la briga e il tempo necessario per metterci al corrente del suo piano d’attacco.
La narrazione di House of Cards è totale: serpeggia dentro dialoghi carichi di doppisensi e caute prese di posizione, si rafforza delle parole extra-diegetiche con cui Frank parla allo spettatore, e prosegue con gli sms scambiati fra i protagonisti (non è cosa da tutti i giorni vedere piccole didascalie sovrimpresse che ci permettono di leggere i messaggi sul telefono dei personaggi), gli articoli del Washington Herald, le parole tonanti della televisione. E’ un coro di voci che Frank Underwood ci insegna come usare a proprio vantaggio.

Un'altissima qualità tecnica e artistica

House of Cards ha finora seguito un andamento qualitativo notevole, senza inversioni di marcia o perdita di attrazione, a conferma della forza della scrittura e dei grandi interpreti su cui può contare. La regia degli episodi fa un uso fedele di questi punti di forza, alternando registi meno noti ad alcune delle firme cinematografiche più illustri: David Fincher ha siglato i primi due episodi, vale a dire quelli fondamentali, incaricati di stregare lo spettatore e spingerlo a proseguire. E’ anche l’occasione per Joel Schumacher di un ritorno dietro la macchina da presa, durante la relativa stasi degli ultimi anni (il suo ultimo film è del 2011).
Alla seconda serie mette mano anche Jodie Foster e la stessa Robin Wright, che si cimenta nella regia continuando a impersonare l’affascinante e calcolatrice Claire Underwood.
Sicuramente la serie deve la sua attenzione alla notevole qualità del lavoro svolto, alla forza dei suoi attori, alla magnifica fotografia (si conta persino una scena di corsa nella quale riconosciamo solo la sagoma buia di Frank e Claire, ombre bidimensionali sotto la luce lunare che sembra ammiccare ai canoni del noir hitchcockiano) e alle musiche di Jeff Beal, tuttavia il progetto di Beau Willimon è anche uno dei pilastri di trasformazione degli ultimi anni, un serial realizzato con cura cinematografica, e che proprio dal cinema attinge molti dei suoi professionisti. E’ la prima e più matura creazione di diffusione internazionale a seguire le regole dello streaming sul web e non del flusso dei palinsesti televisivi (già un anno prima Netflix aveva diffuso tutta la prima stagione del norvegese Lilyhammer, ma senza lasciare un segno equivalente), ma soprattutto fa parte di un “manifesto” della nuova serialità video, ossia di quelle narrazioni che si azzardano a sfidare i sacri principi dello storytelling tradizionale per mettere in moto trame audaci, complesse ed estremamente impietose, dove l’empatia spinta ai suoi limiti ci obbliga a parteggiare per disgustosi anti-eroi (Underwood di House of Cards come il Walter White di Breaking Bad) e rinunciare ad ogni certezza, in un gioco letale senza esclusione di colpi (in modo simile ai continui ribaltamenti di fronte di Game of Thrones e alla sua asimmetria). Ma basterebbe guardare la primissima scena della serie, così come gli opening titles, per capire che Netflix ha messo le mani su un capolavoro, uno dei garanti della sua fortuna.