I'm Dying Up Here: prime impressioni sulla seconda stagione

Ritorna la serie prodotta di Jim Carrey sul mondo della stand-up comedy e su un gruppo di promettenti intrattenitori desiderosi di fama e successo.

I'm Dying Up Here: prime impressioni sulla seconda stagione
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"Hanno tutti problemi con la madre, con il padre. Sono tutti stabili quanto un cessate il fuoco in Medio Oriente. Quella volatilità, quel dolore, questo è il prezzo della genialità. Sono tutte delle povere anime torturate". Questa è l'essenza di I'm Dying Up Here, il suo cuore pulsante, il suo punto di partenza e contemporaneamente fine ultimo. E non è possibile inquadrarla in nessun altro modo, bisogna inevitabilmente rifarsi al meraviglioso quanto amaro discorso di Goldie Herschlag (una Melissa Leo semplicemente straordinaria), proprietaria nella Los Angeles degli anni ‘70 di un club celebre per lanciare giovani comici di talento. La serie creata da Jim Carrey è tra le più peculiari del recente panorama televisivo: è diversa in un modo che non può accontentare tutti né può essere compreso da tutti perché ha il coraggio anche in questa seconda stagione di perseguire una rotta risoluta in cui non trovano spazio colpi di scena o una trama ben definita e intenti chiari. L'unica cosa che conta per la folle scommessa di Showtime è raccontare vite, ossessionate, anzi divorate da quei maledetti e agognati 10/15 minuti sul palco, capaci di cambiare l'esistenza o di rovinarla una volta per tutte.

Una pletora di spunti

È infatti questa la condizione dello stand-up comedian. Lo sanno bene Ron (Clark Dude) e Eddie (Michael Angarano), amici di lunga data finalmente in procinto di avere la loro grande occasione dopo un'estenuante gavetta; ne è fin troppo cosciente Bill (Andrew Santino) in seguito alla morte del padre, un avvenimento che lo ha indotto a riflettere ancora più alacremente sul senso di condurre una vita del genere; lo ha capito dolorosamente Ralph (Erik Griffin), reduce di colore del Vietnam e adesso scrittore per Sonny & Cher, convinto di aver trovato la perfetta quadratura del cerchio, almeno finché non si ripresentano episodi di razzismo; lo sta per scoprire nel peggiore dei modi il talentuoso Adam (RJ Cyler), ingabbiato dalle tremende e disoneste case discografiche.

"Tutto ruotava intorno al materiale, alle battute e la giornata intera veniva vissuta in funzione di quei 15 minuti", parole di Jerry Seinfeld, pronunciate tra una battuta e l'altra nel recente Jerry Before Seinfeld prodotto da Netflix, espressioni veementi di un comico celebre e fecondo che non ha bisogno di presentazioni, proiettato verso la fama proprio da un club simile a quello dipinto in I'm Dying Up Here.

"Solo" comici

L'amalgama tra comicità mai fine a sé stessa, non ritratta per procurare un'ingenua ilarità, e il mastodontico dramma esistenziale che si nasconde nelle pieghe di un lavoro in apparenza sciocco ha del miracoloso, è curato in ogni dettaglio e mostra in maniera quasi commovente quell'imperscrutabile processo artistico che trasforma un'atroce sofferenza in una battuta da recitare su un palco. Un'anima straziata messa a nudo, alla mercé di un pubblico qualunque, con l'unico e delirante desiderio di rimediarsi una risata, la droga più assuefacente al mondo, come ha scoperto a sue spese il convalescente Nick (Jake Lacy), atterrito dal timore di perdere il suo talento in assenza di certe sostanze. O magari un sistema ideato per superare sé stessi, quasi uno muro per schermare le proprie origini contadine e portare a un livello successivo una caratteristica ironia, mirando ad abbattere gli stereotipi di genere: in poche parole, la battaglia insperata di Cassie (Ari Graynor). "E io che pensavo fossero comici", questa fu la risposta al discorso di Goldie. E forse si pensava che I'm Dying Up Here fosse solo una serie, ai confini del documentaristico, sulla nascita della stand-up comedy. C'è invece una moltitudine di lati oscuri e squisitamente umani da sviscerare, ed è questa la sua crociata.