Non conta se e quanto attendiate questo show, perché in ogni caso Lovecraft Country è già un successo. La serie prodotta da Jordan Peele e J.J. Abrams incarna una resilienza che aborre i compromessi e che punta a raggiungere per temi e portata quel Watchmen che è stato la punta di diamante dello scorso anno. Il paragone con il capolavoro di Damon Lindelof non solo può sembrare azzardato, ma al momento di fatto lo è, dato che abbiamo potuto sbirciare solamente i primi cinque episodi della serie in anteprima, in attesa dell'uscita autunnale sugli schermi nostrani.
Resta il fatto che, al pari di Watchmen, la serie di Misha Green, pur parlando al passato, ha moltissimo da dire sul nostro presente e sul nostro essere nel presente, raccontando il viaggio di una famiglia di colore nell'America di Jim Crow degli anni Cinquanta. Se questa premessa vi incuriosisce, sappiate che non siete soli; anche la nostra curiosità è cresciuta esponenzialmente dopo la visione della prima metà stagione.
E se nel nostro speciale su Lovecraft Country vi abbiamo fornito il contesto per approcciarsi a questa serie, ora siamo qui per dirvi cosa ne pensiamo di questi cinque episodi iniziali, in attesa del debutto del 31 ottobre su Sky Atlantic e in streaming su NOW TV.
Un'altalena di generi

Il primo approccio a Lovecraft Country è spiazzante: una scena lisergica che unisce gli incubi della Guerra di Corea, i mostri di Lovecraft e il baseball. Una sensazione surreale che ci fa ben presto piombare nella realtà di Atticus Freeman (Jonathan Majors), reduce dalla guerra sopracitata e in viaggio verso Chicago con uno scopo: trovare il padre Montrose (Michael Kenneth Williams), che dice di avere scoperto un'inedita verità sulla sua vera discendenza. Questa premessa condurrà Atticus alla volta di Ardham - fittizia città al confine con il New Hampshire - nel cuore di quella porzione d'America dove lo scrittore H.P. Lovecraft ha ambientato gran parte della sua mitologia e definita, in virtù di questo, Lovecraft Country. Come si può già intuire da questa introduzione, i confini tra reale e fantastico sono molto labili e sfociano, a livello di scrittura e di messa in scena, in una vera e propria camera delle meraviglie di generi, che spaziano dall'impegno sociale, all'horror con sfumature gore, alla fantascienza, al thriller; il tutto condito da un sano elemento action adventure.
Se questa commistione di generi può sembrarvi azzardata è perché ad essere azzardato è lo stesso concept di Lovecraft Country; una serie che unisce un sottotesto sociale ben definito all'intrattenimento puro, che ricorda a tratti Indiana Jones e X-Files, con una finezza di fondo per nulla scontata.

Un azzardo calcolato, che sulla lunga distanza si rivela vincente, regalandoci una varietà di situazioni a tratti inedita e un attento approfondimento dei personaggi, la cui introspezione è propedeutica allo svelamento di alcuni dei misteri che avvolgono la trama della serie. Ad una scrittura convincente fa eco una messa in scena impeccabile e controllata, che riesce ad adattarsi in maniera dinamica al contesto e al genere.
Il lavoro di ricerca e di preparazione trasuda dalle inquadrature, pulite e bilanciate, mentre la performance degli attori ci regala momenti di deliziosa empatia, che sprigionano rabbia e rassegnazione, tensione e sollievo, senza mai appiattire i protagonisti sullo sfondo, ma regalando loro profondità e spazio d'azione.
Questione di equilibrio
Ciò che sorprende in Lovecraft Country è quanto il sistema tematico/valoriale sia declinato all'interno della struttura narrativa; un fattore che dovrebbe essere scontato in ogni buona storia, ma che tende spesso ad essere trascurato o accantonato a favore di ben altri artifici narrativi. Ciò che colpisce in particolare è l'impulso socio-culturale che fa da propellente non solo ai protagonisti, ma anche ai comprimari, pur mantenendo una coerenza con l'identità di genere e gli stilemi della narrazione. Emblematico a tal proposito è il caso di Ruby (Wunmi Mosaku) sorellastra di Letitia, che vorrebbe sentire sulla sua pelle la sensazione che si prova ad essere una donna bianca in un mondo di bianchi, le cui vicende sfoceranno in una parentesi gore davvero esilarante.
E in parte il merito va sicuramente attribuito all'influenza di Jordan Peele come produttore esecutivo; un regista e sceneggiatore che nelle sue opere è stato finora maestro nel creare mondi ancorati ad un'estetica di genere che si facessero allo stesso tempo carico di veri e propri macigni tematici, quali il rapporto tra identità e diversità, tra indifferenza ed inclusione.

Tutto questo trova nella sensibilità artistica di Misha Green terreno fertile per quella crasi tra spettacolarizzazione e intimismo che coniuga intrattenimento e riflessione, con il rischio però che il primo soffochi la seconda, in un ricorso nemmeno troppo velato ad iperboli che cerchino di farsi apice e citazione dell'espressione di genere. Perché in fondo i veri mostri della serie non sono affatto quelli di Lovecraft.