She's Gotta Have It: impressioni dopo il primo episodio della serie Netflix

Abbiamo visto il primo episodio di She's Gotta Have It, nuova serie targata Netflix remake dell'omonimo film di Spike Lee...

She's Gotta Have It: impressioni dopo il primo episodio della serie Netflix
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Il 1986 lo si può considerare ben a ragione come l'anno d'esordio di uno dei registi che negli ultimi decenni hanno più significativamente lasciato qualcosa al mezzo cinema, Spike Lee. Quella che da noi uscì come Lola Darling fu la pellicola che da subito proiettò Lee tra le promesse più fulgide, incensandolo immediatamente come il Woody Allen della parte nera di New York, il cantore della povertà, del ghetto, la voce di Brooklyn. Insignito del Prix de la Jeunesse al trentanovesimo Festival di Cannes non senza critiche e formali e contenutistiche, rappresentava un giusto spaccato di una porzione di popolazione con poche possibilità di emergere, contemporaneamente lanciando il gusto estetico e il singolare occhio del suo regista. Oggi, a distanza di trent'anni, quell'idea primordiale torna ad essere presa in mano dal suo creatore che ampliandone il respiro narrativo ne produce una versione che vuole essere sì attuale, ma conservando quello spirito di osservazione e analisi. Nasce così She's gotta have it, nuova serie Netflix, disponibile dal 23 Novembre.

La verità è che non mi conoscono

Le premesse da cui la serie parte sono pressoché le stesse dell'omonimo film del 1986: Nola Darling è una giovane artista afroamericana residente a Brooklyn, una donna indipendente, scafata, estremamente orgogliosa della sua indipendenza. Assolutamente restia a rinunciare ai piaceri della vita, Nola (DeWanda Wise) intrattiene delle relazioni sentimentali e sessuali con tre uomini contemporaneamente e sulle quali fondamentalmente girano le vicende che si vanno a raccontare nel corso degli episodi.

Quella di Lee non vuole però essere una semplice e intricata love story, che diventa invece il pretesto narrativo per scavare più in profondità, in un'analisi politica e sociale dell'ambiente da lui descritto. Come la versione cinematografica, anche la serie prodotta da Netflix riprende l'artificio tratto da Rashomon di Akira Kurosawa con in vari personaggi che rivolgendosi direttamente verso la telecamera confidano allo spettatore tutti i propri pensieri e i punti di vista su ciò che accade ed in particolare sulla protagonista. È un racconto di primi piani, di ritratti, che vanno a delineare tipi e personalità diverse, eterogenee, e che ben rappresentano nella propria esagerazione la molteplicità umana che riempie un microcosmo come Brooklyn, che per estensione di senso va poi a descrivere il mondo.

Significativi in questo senso i primi cinque minuti dell'episodio pilota, che in un'esilarante sequenza ci danno uno spettro umano che nel suo stiloso stereotipo ben fa convergere un'analisi più articolata. Per non parlare dei tre amanti di Nola, autentici tipi che con le loro caratteristiche riprendono le categorie maschili per eccellenza. Jamie Overstreet (Lyriq Bent) è il serio e pacato trentenne in carriera, con un buon lavoro, un bel completo e il suo ipocrita perbenismo e moralismo. Mars Blackmon (Anthony Ramos, nell'originale del 1986 interpretato dallo stesso Spike Lee) è il ragazzino latino-americano un po' tamarro, un gangsta-wannabe con le sue magliette da basket, le catene d'oro, e la bici sgargiante con cui fare le evoluzioni tra una canna e l'altra. Greer Childs (Cleo Anthony) è invece il macho vanesio, borioso, sbruffone e selfie dipendente, troppo occupato a pensare a sé stesso. Sono tutti ritratti, immagini su tela che a prima vista possono sembrare superficiali e che invece hanno solo da essere scoperti.

La coolness di Lee

Sul lato tecnico She's gotta have it sprizza Spike Lee da tutti i pori. Il solo primo episodio mette in mostra tutti gli stilemi del regista di Atlanta. Movimenti della macchina da presa da videoclip, fotografia iperrealista, colori sgargianti e saturati, così come un gusto estetico generale improntato sulla coolness afroamericana e la cultura urban dei sobborghi metropolitani delle big cities. È rap, è pop, è jazz questo pilota, fedele al suo creatore e all'opera originale negli intenti e nella sensibilità di fondo, ma estremamente attuale nel suo saper sempre cogliere i riferimenti culturali e i sentimenti dell'oggi, che sia una citazione del passaggio di Kevin Durant dagli Oklahoma City Thunder ai Golden State Warriors, o disquisizioni prettamente cinefile.

Come sempre protagonista non troppo silenziosa è la musica, compagna ideale di viaggio nelle opere di Lee e che anche questa volta, con la sua selezione squisitamente black da ritmo e raffinatezza al girato. Insomma si prospetta un bel vedere, interessante, stiloso e dagli sviluppi sociali e politici travalicanti la sola love story, che ben ci fanno ben sperare. Un bell'esordio che arricchisce ancora un po' il mezzo seriale, sempre più propenso ad accogliere i cineasti e i maestri dell'audiovisivo.