What If...?: dietro le quinte della prima serie animata Marvel

A prescindere dalla sua riuscita, è difficile non apprezzare l'idea di What if...? e alcune interviste ci hanno confermato la complessità delle sue sfide.

What If...?: dietro le quinte della prima serie animata Marvel
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No, non è ancora giunto il momento di archiviare definitivamente What if...?. Sono ancora tanti gli aspetti intriganti che la serie Marvel solleva, sia positivi che negativi - qui potete recuperare la nostra recensione di What if...? - o addirittura determinanti in ottica presente e soprattutto futura del MCU. A catturare la nostra attenzione in questa sede, però, è stata l'esistenza stessa di una produzione del genere, per certi versi un contenitore di storie condensato all'interno di un altro, rappresentato dall'universo condiviso.

Si potrebbero persino considerare gli episodi come singoli albi di una testata fumettistica tanto è fugace la nostra esperienza con essi, eppure non per questo motivo meno coinvolgente o significativa. Senza poi prendere in considerazione le sfide che What if...? porta con sé proprio dal punto di vista della sua realizzazione; il compito ingombrante di rielaborare personaggi, ambientazioni e vicende che i fan amano e seguono da oltre un decennio.

Abbiamo avuto il piacere di poter discutere di tutto ciò con i gemelli Joel e Graham Fisher, Stephan Franck e Laura Karpman, rispettivamente editor, animatore e compositrice della serie Marvel, in chiacchierate molto divertite ma anche molto lucide sulle possibilità e difficoltà affrontate.

Le potenzialità di un'antologia

"Entrare di colpo in un'antologia è tutt'altro che banale, questo è certo. C'è però un lato affascinante, ovvero che bisogna far sì che ogni singolo aspetto funzioni, come se ogni episodio fosse un diamante. Si tratta di un buco nero di storytelling tanto è alta la densità di eventi, e chiudere una puntata è una sensazione estremamente unica e soddisfacente", così si esprime Joel Fisher sulla differenza tra un'antologia e uno show serializzato, e non poteva essere altrimenti.

Una differenza probabilmente ancora più marcata per chi, come appunto i fratelli Fisher, hanno lavorato sin dall'inizio su telefilm quali Trollhunters, che aveva un piano ben definito e un chiaro punto d'arrivo fin dal pilot. Diventa allora un racconto affascinante, poiché bisogna dedicare la stessa attenzione che magari si dedicherebbe ad un'intera stagione al singolo episodio, per cercare la medesima soddisfazione e completezza, visto il format; sfida a dir poco allettante e che permette di spaziare tra numerosi generi, come fieramente ribadito da Graham.

Un lavoro fatto di minuzie e dettagli, per costruire qualunque scena nel modo migliore e, possibilità straordinaria concessa dall'animazione, poterlo fare senza essere bloccati o limitati dal materiale girato sul set. Non dobbiamo certamente essere noi a sottolineare quanto sia vantaggiosa un'eventualità simile in piena pandemia, ma dove si traccia il limite oltre il quale non procedere quasi compulsivamente? Si può sempre ritornare su una scena e continuare ad editarla fino alla perfezione?

"Vicino al confine con la follia, è lì che si traccia il limite (risata sgargiante di Joel, NdR.). La fortuna è che per ogni impresa creativa arriva inesorabilmente il tempo di chiudere i battenti e rilasciarla al mondo, il che di norma coincide con il momento in cui il pubblico reclama dietro i cancelli degli studi. A parte gli scherzi, è un po' banale, ma alla fine è il tempo che traccia questa linea", un'affermazione di una sincerità non scontata, che fa trasparire una passione smisurata per il proprio lavoro e un senso di responsabilità non comune, senza scadere in illusioni idealistiche.

Tra classicismo e innovazione

Altrettanto cosciente è stato con noi Stephan Franck, che ha lavorato alle animazioni di What if...?, un altro punto estremamente delicato della produzione. D'altronde, si sta dando vita a versioni animate di personaggi ormai divenuti colonne portanti della più recente cultura pop e, dunque, trovare quella giusta via di mezzo tra classico e nuovo è tutt'altro che immediato.

Franck ha infatti insistito più volte sul quantitativo - a tratti immane - di prove, test e stili per trovare una strada apprezzabile, un'estensione naturale del cuore pulsante del telefilm, ovvero il mettere i suoi protagonisti storici in contesti inediti: insomma, cercare la sorpresa evitando di sacrificare la familiarità, che è un po' il leitmotiv di ogni componente produttiva di What if...?.

E di nuovo arriva dirompente l'amore per il lavoro svolto, forse pronunciato e reso più netto da una leggera sensazione di malinconia nel riportare a galla i ricordi di infiniti test con le illuminazioni, gli effetti, le interazioni dei personaggi con il background e la voglia a tutti i costi di trovare una camaleontica quadratura del cerchio, capace di adattarsi alle costanti variazioni tematiche e stilistiche della sceneggiatura.

"Credo che tutto ruoti intorno all'atmosfera emanata da quell'attore o attrice. Non so quante volte durante lo sviluppo di What if...? è capitato di realizzare un disegno o animare un'intera scena e pensare che in fondo lei o lui non si sarebbero comportati in quel modo. È difficile da spiegare ma è una sensazione viscerale, proprio perché conosciamo questi personaggi da un decennio. La sfida è questa, ma al contempo se non fossero volti noti non ci sarebbe lo stesso gusto nel metterli in queste condizioni. What if...? può esistere per un tale conoscenza pregressa.

E noi non abbiamo dovuto fare altro che lasciar esplodere quella tensione", riassume infine Franck in un ritratto poetico in cui lo stile giusto non è altro che una tensione liberata delle varie componenti centrali di uno show. Bisogna avere il quadro completo, prerequisito cruciale su cui hanno insistito sia Franck che la Karpman, oltre alla comprensione totale di What if...?, poi bisogna trovare un catartico bandolo della matassa.

Comporre un commiato

"È stato molto divertente e molto impegnativo (dare un tema musicale a personaggi che già lo hanno, NdR.). Mi fa sorridere il fatto che sia una sfida nella sfida, perché l'intera What if...? è basata sul giocare con i film, conferire ai personaggi una nuova luce e per la musica è lo stesso discorso. Una volta capito l'insieme e aver ricevuto rassicurazioni sul fatto di non volere solo composizioni sentite nel MCU, perché altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di me, la ricerca fondamentale è stata l'equilibrio, il comprendere alla perfezione le situazioni e scegliere in che direzione andare.

Il primo episodio, ad esempio, è praticamente Captain America, eppure ad un certo punto diventa Captain Carter. Come si esplora un simile cambiamento dal punto di vista musicale? E ogni volta bisogna capire cosa prendere e cosa lasciare indietro", esordisce con chiarezza la Karpman. Alla fine è un discorso perfettamente sovrapponibile a quello di Franck: va conosciuto il prodotto e solo dopo, e in conseguenza di ciò, si esplora il resto, trovando un punto di equilibrio tra la familiarità e la sorpresa, tra il saper lasciarsi trasportare ed enfatizzare il colpo di scena e, al contempo, sfruttare l'amore dei fan.

Eppure c'è un capitolo a parte nel lavoro svolto dalla Karpman, non credete? Qualcosa impossibile da ridurre alla via di mezzo, qualcosa che va anche oltre l'annosa ed intramontabile diatriba contemporanea tra le potenzialità colossali offerte da un'orchestra digitale e le sensazioni impagabili di un complesso di musicisti dal vivo. Stiamo ovviamente parlando della realizzazione del tema dedicato a Black Panther, impresa che sarebbe sbagliato se non proprio irrispettoso banalizzare.

È stata l'ultima performance di Chadwick Boseman; non si può far finta che sia un compito come gli altri e, fortunatamente, la Karpman non solo non ha evitato, nascosto o minimizzato lo sforzo, ma l'ha anche messo in primo piano. Ritorna qui, per la terza e ultima volta, quel mix di onestà e amore per questo lavoro, con l'immancabile groviglio di difficoltà che ne derivano.