American Horror Story Double Feature Recensione: un grande passo indietro

La decima stagione di American Horror Story intriga inizialmente per idee e dinamiche, ma si perde troppo spesso tra estremismi e voragini narrative

American Horror Story Double Feature Recensione: un grande passo indietro
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Ci è voluto ben più tempo del previsto prima di poter vedere su schermo American Horror Story: Double Feature. Superando le problematiche legate alla pandemia, l'importante opera targata FX è sbarcata sulla piattaforma Disney+ ad ottobre (qui invece trovate le serie Disney+ di dicembre 2021). Per lungo tempo si sono susseguite chiacchiere e speculazioni da parte dei fan più accaniti, con un'operazione di marketing ben diversa dalle precedenti che ha persino previsto un approccio cross-mediale: anticipando piccoli frammenti narrativi o alimentando ulteriormente i rumors, il canale YouTube del network aveva elevato le aspettative oltre la soglia di sicurezza, puntando soprattutto sul fattore novità.

Il duo composto da Ryan Murphy e da Brad Falchuk non ha mai smesso di cercare nuovi modi per evolvere la narrazione di un'opera importante come American Horror Story. Osannata per la sua gloria passata, ma oggi soggiogata dal peso degli ultimi flop, la serie ha evidenziato la necessità di un cambio di rotta. Sperimentando nuove vie con produzioni parallele e ridotte come American Horror Stories (qui la nostra recensione di American Horror Stories), gli autori hanno deciso di concentrarsi sull'ermetismo, con la promessa di mantenere un ritmo incalzante e conciso suddividendo la decima stagione in due parti ben distinte.

Red Tide, tra orrore e fama

Nonostante le speranze dei fan, il risultato ha decisamente deluso le aspettative iniziali che ci avevano incuriosito alle prime battute, come accennato nelle nostre prime impressioni su American Horror Story Double Feature, palesando un'eccessiva preoccupazione per il ritmo e troppa poca cura per la gestione narrativa in fase di sceneggiatura.

Il decimo ciclo dell'antologia orrorifica americana si mostra sin dall'inizio come un'opera ben ancorata ai propri principi ma aperta a nuove prospettive; qualsiasi sforzo degenera però in un eccesso privo di controllo. I primi sei episodi, fulcro principale di questa decima stagione e filone ben più ordinato fra i due, esplorano un racconto faustiano di bramosia e successo: in Red Tide Harry (Finn Wittrock), uno sceneggiatore in crisi, si trasferisce con la moglie e la figlia in una città di mare, Provincetown, per superare il proprio blocco. Tuttavia, la piccola cittadina conta pochissime anime in inverno, rendendo l'atmosfera decisamente più cupa, e rivela tra le sue ombre misteri sempre più macabri. Come intuito già nelle nostre impressioni a caldo, le premesse sembravano interamente mirate in favore di un racconto horror condito da un'ambientazione suggestiva.

Sotto quest'ultimo aspetto, la Provincetown mostrata nello show fa il suo dovere, così come i richiami stilistici all'interno della casa del protagonista riescono a condire un contesto agghiacciante e disturbante. Le atmosfere sono forse la nota più lieta di questa prima parte, capaci di offrire anche (pochi) momenti di pathos. La prospettiva secondo cui l'horror avrebbe superato il grottesco e l'esagerazione tipicamente camp della serie finisce troppo presto per dileguarsi in un'ipotetica satira colma d'eccessi completamente gratuiti. Considerando lo spunto di riflessione sul tema del successo, utile a poter giocare con i potenziali sacrifici atti a mantenerlo in un contesto orrorifico, i guizzi vengono quasi interamente soppiantati dalla critica allo show business e a dalla fastidiosa eccentricità di certi personaggi.

Il tema stilistico di Red Tide ruota intorno ai vampiri, elemento che a dispetto delle passate rappresentazioni si condisce di uno spunto leggermente più interessante, avvicinandoli a dei novelli Nosferatu con decisamente meno compiti da svolgere per portare avanti la narrazione. Molto presto, qualsiasi nota lieta viene soppiantata da ridondanze che tolgono spazio a frammenti intriganti del racconto, dando vita a una sorta di commedia nera in cui diversi interpreti cercano di rendere al massimo delle loro possibilità. Va infatti detto che i ritorni di Evan Peters, Sarah Paulson, Frances Conroy, uniti ad altre curiose novità - tra cui un inaspettato Macaulay Culkin - riescono quantomeno a concentrare l'attenzione su di sé.

Death Valley, tra cospirazione e sci-fi

La seconda sezione dello show, composta da soli quattro episodi e firmata da Brad Falchuk, si configura invece come un affettuoso omaggio alla fantascienza novecentesca che più ha affascinato gli americani e che ha reso la figura degli alieni un elemento cardine del genere.

Death Valley è infatti ambientato su due filoni temporali differenti, tra gli anni '50 e il presente, e vede gli umani alle prese con la presenza sempre più radicata degli extraterrestri all'interno della società (dal presidente Eisenhower di Neal McDonough e la moglie Mamie di Sarah Poulson a volti quali Nixon, Marylin Monroe e molti altri). Mescolando quindi dettami ucronici e politici a un complesso gioco d'intrighi e violenza, la seconda parte di Double Feature concede inizialmente ottime aspettative, prima che anche queste finiscano per crollare dopo appena un paio di episodi. L'aspetto più gradevole è senza dubbio rappresentato dal viavai narrativo tra i due filoni temporali, con ogni episodio che rimbalza tra bianco e nero (passato) e colore (presente). La visione aliena non offre però nulla di nuovo, e anzi scade nello stereotipico - pur se con buone intenzioni citazioniste. Il risultato degli intrighi messi in piedi non emerge in nulla e lascia spazio a una sequela di riferimenti complottistici mai convincenti.

L'idea di inserire così forsennatamente elementi all'interno del racconto, per poi abbandonarsi ad un finale a dir poco rocambolesco, ha lasciato moltissimi con l'amaro in bocca. Death Valley, a differenza di Red Tide, non riesce neppure a mantenere parte delle proprie aspettative e risalta esclusivamente come ennesimo capitolo accidentato dell'antologia. Sicuramente, in questo caso, l'intenzione di muoversi eccessivamente verso il camp non ha pagato. Proprio come nella precedente parte della stagione, l'intero ciclo di puntate si contraddistingue come grande occasione sprecata dinanzi agli eccessi di chi ha perfettamente compreso i propri punti di forza, ma non ha saputo gestirli a dovere.

La vanità dell'orrore

American Horror Story: Double Feature non ha affatto entusiasmato i fan, e non poteva che lasciare particolarmente indifferente la critica. Per quanto le intenzioni e le idee possano anche essere lodevoli, la realizzazione risulta il prosieguo di una parabola discendente che non accenna a risalire. Non tutto è da buttare in una produzione del genere, così come evidenziano le sempre ottime interpretazioni da parte del cast e la costruzione delle atmosfere, ma come troppo spesso capita negli show di Murphy l'eccesso in fase di scrittura finisce per offuscare ogni delicatezza.

Se emerge qualcosa da questa esperienza è la certezza che Murphy e Falchuk abbiano focalizzato l'attenzione sulle componenti della loro creatura che hanno sempre attratto i fan. Speriamo vivamente che venga corretto il tiro nelle prossime iterazioni, soprattutto con un'attenzione diversa per la gestione delle tematiche e l'equilibrio tra eventi e contenuti. Come spesso capita in queste opere, l'orrore e l'assurdo si fanno specchio delle fragilità dell'uomo, condannato dai propri istinti e ossessionato dalla propria ambizione. La differenza tra qualcosa di valore e qualcosa di effimero si gioca tutta sulla rappresentazione di quei riflessi.

American Horror Story - Stagione 10 American Horror Story: Double Feature racconta due storie molto diverse sfruttando una formula interessante. Il risultato, tuttavia, lascia ben poco su cui aggrapparsi per ritenersi soddisfatti. Qualche sprazzo di intrattenimento, atmosfere intriganti e buone performance non riescono a risaltare rispetto a una costruzione narrativa frettolosa, tantomeno a una gestione tematica poco curata e spesso eccessiva nella messa in scena.

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