Fondazione Recensione: il primo passo di Apple verso il futuro

Lo show di David S. Goyer non è il capolavoro o il fedele adattamento che molti credevano, ma è senza dubbio uno sci-fi con molto da dire.

Fondazione Recensione: il primo passo di Apple verso il futuro
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Cerchiamo di liberarci subito dall'elefante nella stanza: Fondazione di Apple non è l'adattamento definitivo che i fan di Isaac Asimov si aspettavano. E forse è giusto così. Il sentore era evidente già dalle nostre prime impressioni su Fondazione, quando gli episodi iniziali avevano messo subito in chiaro la natura dello show di David S. Goyer, svelando un ordito che differiva e in un certo senso andava oltre il Ciclo delle Fondazioni per guadagnarsi uno scarto narrativo proprio, rielaborando il materiale d'origine e prendendo direzioni talvolta coraggiose, il più delle volte rischiose agli occhi di un fandom pluridecennale.

Ora che la prima season della serie Apple TV+ è giunta al termine - ricordiamo che Fondazione è stata rinnovata per una seconda stagione - possiamo finalmente tirare le somme di quello che a tutti gli effetti era uno degli show più attesi dell'anno (ciò non vi deve ovviamente impedire di spulciare le uscite Apple TV+ di novembre 2021), tenendo il confronto con Asimov sullo sfondo, senza farne l'unico metro di paragone.

Quel che resta delle Fondazioni

Le predizioni di Hari Seldon basate sulla scienza da lui inventata, la psicostoria, parlano chiaro: l'Impero Galattico cadrà nell'arco di poche centinaia d'anni, ai quali seguiranno decine di millenni di caos e conflitti, prima di poter ristabilire l'ordine.

L'intendo di Seldon è quello di ridurre questo enorme periodo buio a mille anni, ma per adempiere a questa esponenziale impresa è necessario iniziare sin da subito a lavorare ad una Fondazione: una comunità selezionata che prepari una sorta di enciclopedia per il nuovo corso dell'umanità, racchiudendovi le nozioni provenienti da tutto l'universo per non evitare che la civilizzazione ricominci da zero. Il ciclo di romanzi di Asimov racconta questa impresa in maniera a tratti non lineare, passando da un pianeta all'altro e da un'epoca all'altra in una struttura narrativa che risulta poco organica per definizione, soprattutto nel raccontare i protagonisti e le loro interazioni. L'operazione di Goyer e Friedman mira a uniformare la situazione, tessendo una trama che unisce le sorti drammaturgiche dei personaggi, drammatizzando situazioni e rapporti. In questo contesto, una delle variazioni più interessanti - che risparmia parecchi salti temporali e uniforma la percezione del potere centrale - è rappresentata dalla dinastia genetica dei Cleon.

Tre cloni in diverse età dell'uomo che discendono dall'imperatore Cleon I e che mettono in moto una dialettica sull'identità e sul libero arbitrio che funziona in maniera dignitosa nel gioco di specchi tra Brother Dawn, Day e Dusk. Segnaliamo a tale riguardo l'efficacia dell'interpretazione di Lee Pace che restituisce la giusta solennità e la necessaria ambivalenza al personaggio di Brother Day.

Più in generale non possiamo che essere soddisfatti anche dalle performance degli altri comprimari, tra nomi eccellenti e promettenti esordienti: dall'Hari Seldon di Jared Harris alla Gaal Dornick di Lou Llobell, passando per la Salvor Hardin di Leah Harvey. Riguardo quest'ultime, abbiamo apprezzato il cambio di genere rispetto ai romanzi, non trovando affatto pretestuosa la scelta, che in nome dell'inclusività guadagna anche in varietà. Su tutti, però, troneggia la Demerzel di Laura Birn che sotto la scorza binaria della sua interpretazione dell'androide al servizio della dinastia Cleon nasconde tutte le idiosincrasie e le tematiche care ad Asimov e al suo ciclo dei robot.

Un prologo opulento

Ciò che abbiamo riscontrato in termini più critici riguarda l'approccio di Goyer e soci al ruolo stesso della Fondazione e alle dinamiche che concernono l'esilio su Terminus e gli eventi che ne susseguono. Il tutto appare delineato forse in maniera poco strutturata, rivelandosi un limite anche, e soprattutto, della natura introduttiva di questa prima stagione, che costituisce di fatto un lungo prologo di una decina d'ore a ciò che si scatenerà successivamente.

Nella trama orizzontale, ad oggi, hanno prevalso le narrazioni dei singoli personaggi, con uno spazio assai più ridotto dedicato al progetto generale che rappresenta di fatto l'oggetto di tutto lo show. Di pari passo, il collasso dell'impero - insieme alla stessa Prima Crisi Seldon - sembra essere stato in qualche modo incitato per favorire i tempi televisivi, ben diversi da quelli letterari.

Permane la grandeur di una messinscena che sorprende, ma delude in pochi significativi frangenti, quando gli effetti speciali digitali intervengono in maniera più massiccia e totalitaria, sebbene il risultato rimanga senza ombra di dubbio tra i più convincenti dell'intera storia del medium. Merito anche della commistione con gli effetti visivi e l'utilizzo di set reali ricreati in studio e in location sparse per tutto il pianeta. Un livello di cura sopraffino che raggiunge l'apice in scenografie e costumi meravigliosi che siamo soliti ammirare più sul grande schermo. Tutto ciò dimostra l'impegno di Apple nonché tutta la potenza produttiva del colosso di Cupertino, che guadagna costantemente terreno sui competitor soprattutto per la qualità delle sue produzioni.

Foundation Fondazione non sarà forse lo show definitivo tanto atteso dai fan di Asimov, ma la produzione Apple di David S. Goyer rappresenta in ogni caso un precedente importante nella storia degli adattamenti. Prendendosi più di una libertà creativa, lo showrunner tratteggia un'epica fantascientifica ancora tutta in divenire che declina i temi cari ad Asimov in chiave moderna, adattando per necessità drammaturgica le dinamiche e gli intrecci tra i personaggi e imbastendo uno degli show più impressionanti dal punto di vista produttivo. Pur non essendo perfetta e lontana dal capolavoro che in molti prevedevano, la prima stagione di Fondazione non è che il primo passo verso una saga che già da ora si sta rivelando capace di intrattenere un pubblico molto vasto, che trascende le nicchie di genere. Che questo possa essere un difetto per molti, non esclude il valore di un'opera che ha ancora molto da dimostrare.

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