Kingdom 2 Recensione: la serie fantasy coreana di Netflix convince ancora

Torna Kingdom, il drama in costume coreano che unisce medioevo, zombie ed intrighi di palazzo, con risultati sorprendenti.

Kingdom 2 Recensione: la serie fantasy coreana di Netflix convince ancora
Articolo a cura di

Non poteva esserci esordio migliore di Kingdom per la serialità coreana targata Netflix. L'ibrido tra horror, thriller politico e dramma in costume ha portato una ventata di aria fresca nello stantio panorama delle serie tv a tema zombie. Con la seconda stagione si è concluso il cammino del Principe Ereditario Lee Chang verso la conquista del trono e la sconfitta dell'epidemia che resuscita i morti in redivivi assetati di carne umana. Nei giorni scorsi abbiamo avuto modo di descrivere le prime impressioni sulla seconda stagione di Kingdom. Ora, alla luce degli ultimi episodi, siamo in grado di fornirvi un quadro più preciso nella nostra recensione completa.

Realismo sociale

Nonostante sia di fatto una serie horror in costume ambientata nella Corea di fine del Cinquecento, Kingdom è metafora di un realismo sociale intorno al quale ruota gran parte la cinematografia sudcoreana. Il recentissimo successo di Parasite con una miniserie HBO in cantiere ha confermato agli occhi del mondo un trend tematico che assume importanza fondativa nell'espressione sudcoreana della settima arte. Negli ultimi anni la tagliente critica sociale insita nel genere zombie creato da Romero è stata spesso sacrificata a favore di una spettacolarizzazione degli effetti speciali, mentre la Corea del Sud aveva già dimostrato di saper recuperare in parte questi valori con Train to Busan, declinandoli poi in ambito seriale - e in maniera più organica - in Kingdom.

Il tema della disparità sociale emerge in maniera preponderante all'interno di questa seconda stagione, dove l'arrivismo e l'elitarismo di un'aristocrazia senza scrupoli, capace solo di perseguire i propri interessi a sfavore della popolazione, raggiungono l'apice. Il fine giustifica i mezzi, motivo per il quale i malati di un villaggio vengono scelti come cavie per testare la "pianta della resurrezione", per vincere una battaglia decisiva contro l'esercito giapponese.

Il contrappasso di questa scellerata decisione è l'epidemia di non morti che si scatena nella prima stagione dall'altrettanto scellerato piano di Cho Hak-joo (Ryu Seung-ryong) che coinvolge il redivivo Re di Joseon. Non dimentichiamoci infatti che l'evoluzione dell'epidemia in contagio avviene dopo che gli abitanti del villaggio natio del medico reale si trovano, costretti dalla loro disperata condizione di povertà, ad accogliere come inattesa prelibatezza le carni del defunto assistente del medico, che porta in sé i vermi della "pianta della resurrezione" trasmessi con il morso del mostruoso sovrano.

Essi sono quindi i primi a scatenare il contagio e con esso il moto apocalittico che vede l'assalto delle fortezze di quella stessa aristocrazia che ha sempre soverchiato il popolo. Dall'assalto alla fortezza di Sangju, al folle piano suicida della Regina Cho al palazzo reale, i non morti resettano la piramide sociale raggiungendo un'apocalittica, quanto involontaria parità di ceto.

L'altro lato della medaglia è il deplorevole perseguimento da parte della Regina di un piano per ottenere un erede maschio. Anche in questo caso la macchinazione vede come principale dinamica l'oppressione di popolane indifese, costrette a fungere da madri surrogate per permettere alla dinastia del clan Haewon Cho di governare la nazione. Il prezzo da pagare è ovviamente la vita delle partorienti e delle proprie neonate femmine.

In questo contesto è presente anche una dinamica interna di riscatto di genere da parte della regina Cho nei confronti del padre che non ha mai creduto in lei, in quanto donna. Insomma, uno degli aspetti più interessanti di questa stagione di Kingdom è l'evoluzione di una tematica sociale che è all'origine del contagio e che rappresenta una priorità anche per il Principe Ereditario Lee Chang, che realizza le condizioni del suo popolo proprio combattendo per loro contro la minaccia dei non morti e la tirannia della Regina Cho, nonostante il finale lasci sospesi questi propositi di giustizia sociale.

L'inesorabilità dell'orrore

L'elemento horror è tra i più riusciti della serie. Riprendendo la tradizione "post 28 Giorni Dopo" - che rinnega le movenze lente, ma inesorabili degli zombie di Romero - i non morti di Kingdom sono delle vere e proprie macchine di morte centometriste. Uno dei vantaggi di questa rappresentazione è senz'altro il dinamismo della messa in scena e la crescita esponenziale del terrore, proprio perché la velocità di questi esseri amplifica l'inesorabilità dell'orrore, riducendo i tempi di azione dei protagonisti e aumentando di conseguenza la percezione di pericolo.

I non morti di Kingdom sono terrificanti perché inarrestabili; si scagliano come ossessi contro le palizzate difensive di un avamposto, al punto da sfondarne intere porzioni con la violenza della propria voracità, generando nello spettatore un terrore genuino che li avvicina più ai non morti di Game of Thrones e di Train to Busan, che ai placidi pascoli di erranti di The Walking Dead. Il contesto storico è poi valore aggiunto, che trasforma l'epidemia medievale realmente accaduta in un racconto soprannaturale di stampo mitico.

L'importanza di una visione globale

Kingdom funziona soprattutto per la sua coerenza d'insieme, che incanala tutti gli elementi della produzione in una visione comune. A livello narrativo il limite di sei episodi per stagione si è rivelato una scelta vincente per riuscire a condensare ed intrecciare nelle giuste proporzioni gli intrighi politici, i voltafaccia e gli elementi drammatici, garantendo genuinità all'elemento horror, che non risulta mai scontato o stucchevole proprio perché deriva dall'alternanza ben bilanciata tra i suddetti fattori.

L'intreccio riunisce le linee narrative in una convergenza che genera attrito, catarsi e tensione. I burattinai rischiano di diventare burattini e anche il Principe Ereditario si trova nella scomoda posizione di dover affrontare personaggi ritenuti alleati.

Visivamente Kingdom è una festa per gli occhi. Le sbalorditive location, dettagliate all'eccesso - tra sontuosi palazzi nobiliari ed interi quartieri sfasciati dalla povertà - ci trasportano nel periodo Joseon senza tentennamenti, mentre i costumi fungono da seconda pelle per i personaggi, rendendoli più reali e in empatia con lo spettatore, con un'attenzione maniacale per tessuti, finiture ed accessori. Inoltre cappelli, katane, archi e frecce non sono semplici props di scena, ma veri e propri simboli di appartenenza ad una determinata classe sociale, espressione di uno sforzo produttivo encomiabile.

La regia degli episodi regala momenti di grande respiro che si alternano alla frenesia dell'orrore. La macchina da presa sfrutta appieno lo spazio diegetico, in un vero e proprio manuale di cinematografia che, nella sua varietà, si presenta come riferimento di genere al quale molti show attualmente in produzione dovrebbero guardare con il taccuino alla mano.

Le battaglie vengono seguite a 360 gradi, senza dimenticare nessun personaggio, con dinamiche e coreografie sempre diverse. Il ricorso ai ralenti non è mai banale, ma amplifica l'orrore della situazione, mentre alcune trovate che potrebbero essere considerate fuori luogo - come il bellissimo rewind che apre il quinto episodio -, sono azzardi ponderati di una regia che sa esattamente ciò che vuole e come ottenerlo.

La recitazione degli attori suggella un progetto coerente nella sua visione d'insieme. Le principali interpreti femminili raggiungono l'apice nella loro opposizione valoriale. Il medico Seo-Bi, persegue il proprio obiettivo di trovare una cura all'epidemia con candore, determinazione e giustizia, e Doona Bae (The Host, Sense8) ne è la perfetta incarnazione. Opposto, ma ugualmente memorabile il ruolo della spietata Regina Cho, affidato all'interpretazione di Hye-Jun Kim, che dimostra tutta la scelleratezza derivante da una ferita del passato, che ne condiziona le azioni e la condotta.

L'evoluzione del Principe Ereditario Lee Chang attraversa un percorso di umanizzazione, che sfocia in un finale inaspettato, e il merito è tanto della sceneggiatura, quanto della recitazione di Ju Ji-hoon. Stesso discorso anche per le ottime prove attoriali di Ryu Seung-ryong e Kim Sang-ho, rispettivamente nei panni di Cho Hak-joo e Moo Young.

Kingdom - Stagione 2 La seconda stagione di “Kingdom” alza l’asticella di genere. Lo zombie drama sudcoreano è tornato per ribadire che una forte visione, veicolata da una produzione coesa su tutti i fronti, che punta all’eccellenza, può sfociare in qualcosa di unico. E “Kingdom” è qualcosa di unico nel panorama seriale contemporaneo. Questa seconda stagione conferma le grandi premesse della prima, ampliando la scala dell’azione e la posta in gioco. Una solida regia e un'ottima sceneggiatura orchestrano le grandi interpretazioni degli attori in un quadro apocalittico nel quale serpeggia il dramma sociale. ”Kingdom” è una festa per gli occhi, nonché una perfetta sintesi dell’eccellenza di tutti i reparti produttivi coinvolti. Nonostante il finale divisivo, non ci dispiace affatto che la strada resti aperta a nuove incognite ed avventure. Una cosa è certa; il cammino del Principe Ereditario, forte di una vincente commistione di generi e di una qualità indiscutibile, si guadagna pienamente il titolo di pietra miliare non solo delle produzioni Netflix, ma di tutta la serialità contemporanea.

8.5