Narcos: Messico, la recensione della seconda stagione della serie Netflix

La DEA cerca vendetta, l'impero di Felix Gallardo rischia di sgretolarsi e la fedeltà degli alleati vacilla nella nuova stagione in arrivo su Netflix.

Narcos: Messico, la recensione della seconda stagione della serie Netflix
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La prima stagione di Narcos: Messico ci aveva sorpreso per la freschezza che aveva dato al franchise. Inizialmente nato come quarta stagione della serie principale, dopo aver affrontato il cartello di Medellìn e quello di Cali, la strategia dello spin-off si è invece rivelata una scelta vincente. Spostando il focus sul Messico gli sceneggiatori si sono ritagliati uno spazio narrativo incontaminato nel quale coltivare l'ascesa di Miguel Ángel Félix Gallardo, fondatore del più grande impero criminale messicano.

Nella prima stagione abbiamo infatti assistito alla nascita di questo impero, complice la volontà di potenza e l'astuzia di Félix, interpretato da un ispirato Diego Luna, e abbiamo seguito anche il germogliare parallelo della DEA, l'agenzia federale antidroga americana, attraverso le gesta dell'agente Kiki Camarena, perfettamente incarnato da Micheal Peña. Il risultato è stato un ottimo bilanciamento tra le parti, con un alto tasso di coinvolgimento. La seconda stagione di Narcos: Messico arriverà su Netflix il 13 febbraio, ma abbiamo avuto l'occasione di vederla in anteprima per voi. Siete pronti a tornare tra le strade di Guadalajara?

Ground Zero

L'omicidio di Kiki Camarena è stato una lettera scarlatta per Félix Gallardo; ha sconvolto l'opinione pubblica e rafforzato la DEA, che ha schierato moltissimi uomini contro il narcotraffico e istituito l'Operazione Leyenda, capitanata dal poco ortodosso Walt Breslin (Scoot McNairy). Nel frattempo i tempi stanno cambiando in Messico, distrutto da uno spaventoso terremoto che ha sollevato la popolazione contro il governo, che ora rischia di cadere.

Un terremoto che avviene metaforicamente anche all'interno dell'organizzazione di Félix dove, tra rivalità personali ed interessi economici, i vari capi delle piazze vorrebbero riottenere la loro autonomia, soprattutto alla luce dell'accordo fatto da Gallardo con i cartelli colombiani, che hanno spostato il core business dalla marijuana alla cocaina.

La caduta di un impero

Se la prima stagione di Narcos: Messico divideva equamente la torta dell'empatia tra Félix e Kiki, qui il focus è tutto incentrato sullo Smilzo, il capo della Federazione criminale che mira a gestire l'intero traffico di droga del Messico e a soppiantare in poco tempo anche i cartelli colombiani. Ma quello di Félix diventerà sempre più un processo di conservazione del proprio status e del proprio potere, affiancato ad un movimento espansivo sempre più fragile e inficiato da tradimenti e pugnalate alle spalle. I segnali sono espliciti, a partire dal primo episodio, nel quale Félix festeggia il suo quarantesimo compleanno e riceve una tigre in regalo dai soci.

La tigre è una perfetta metafora, forse la più riuscita, della condizione in cui verserà Félix per l'intera stagione. Il felino funge infatti sia da avvertimento che da foreshadowing del destino del Capo dei Capi. Come gli viene riferito, in India la tigre è temuta perché non attacca guardandoti negli occhi, ma sorprendendoti alle spalle, per questo chi si avventura nelle loro zone indossa una maschera sulla nuca.

E proprio i capi delle piazze saranno coloro da temere, coloro dai quali guardarsi le spalle, perché non attaccheranno mai direttamente il proprio capo. Allo stesso modo l'immagine della tigre in catene che chiude l'episodio rappresenta un sunto perfetto della condizione di Félix, pericoloso e temibile, ma imbrigliato dagli umori delle piazze e braccato dalla giustizia.

L'altro lato della medaglia

La vera incognita di questa stagione è proprio lui, Walt Breslin, l'agente della DEA giunto nel finale della prima stagione a bordo di un camper carico d'armi e pronto a vendicare con i colleghi la morte di Kiki Camarena. E, non fraintendete, la vendetta c'è tutta, a tratti brutale ed appagante, con quella punta di amarezza che è la cifra dell'ambientazione messicana e dell'ineluttabilità della corruzione e dei voltafaccia. Ma non è questo il punto.

Partendo dal presupposto che Walt non può essere paragonato a Kiki per tutta una serie di motivi che trovano fondamento nella differente scrittura del personaggio, dobbiamo però constatare che qualcosa non è stata pienamente sviluppata nella writing room. L'empatia con Kiki Camarena era infatti ferrea, favorita da un background ben costruito e da personaggi di supporto ben sviluppati (in particolare la moglie di Kiki).

Walt Breslin ha dalla sua una profonda ferita del passato - la morte del fratello tossico - che dovrebbe spingere all'empatia nei suoi confronti, ma che all'atto pratico si rivela più un pretesto, che un motore dell'azione. L'attaccamento per la cognata e per il nipote è l'appendice di una colpa mai espiata, dettata dal fatto che Walt non è riuscito ad impedire la morte del fratello.

Non c'è quasi mai la percezione di un interesse sentito nei loro confronti che vada al di là della routine, ma solo un morboso attaccamento alla figura del fratello per interposta persona. L'unico vero sprazzo di approfondimento psicologico è da ricercarsi negli episodi sette e otto, tra i più riusciti della stagione, dove l'incontro tra Walt ed Acosta esplora in maniera più ardita l'interiorità dei personaggi, restituendoci un appagamento emotivo altrimenti volatile.

Tutto questo rende il personaggio di Walt distaccato e il tutto, sommato al suo approccio non ortodosso alla professione, viene percepito dallo spettatore in maniera fredda, spostando il baricentro dell'interesse più su Félix, che sull'incolumità del nostro eroe. Ed è proprio questo sbilanciamento a destabilizzare gli equilibri di questa stagione nella quale la DEA, orfana di Kiki e della sua indagine, aumenta la scala d'azione, ma perde un elemento di contatto tra lo spettatore e la narrazione. Quella dicotomia, che era stata la cifra vincente del parallelismo tra Diego Luna e Michael Peña, diventa così sottile e friabile, con il rischio di spezzarsi sotto il peso degli eventi.

Un divenire necessario

La natura transitiva congenita in questa stagione è però necessaria a completare la parabola di Félix iniziata nella prima stagione e che qui sposta sempre di più l'attenzione sull'imminente ribellione delle piazze e sulla futura nascita dei cartelli, in un divenire che si fa attesa e in un'attesa che non trova mai veramente il suo naturale sfogo, perché questo ci è precluso, nonostante gli eventi del finale di stagione.

Un fuoco di paglia che ricompensa un arco narrativo sempre in potenza. Per questo anche gli exploit definitivi di personaggi secondari come El Chapo e Amado Carrillo Fuentes, auspicati nella prima stagione, sono rimandati a data da destinarsi. L'intento degli autori è mostrare il lato discendente della parabola di Félix in modo da specchiarlo con quello ascendente della prima stagione. Nel fare ciò si segue il filo parallelo delle vicende secondarie, evolvendone i protagonisti e mettendoli di fronte a scelte che ne aumenteranno l'influenza, ma che, tutto sommato, rimangono espressioni in potenza di vicende che, si spera, troveranno spazio nella prossima stagione.

Uno stile consolidato

La messa in scena contribuisce ad appianare questa necessaria stasi di scrittura, con una regia convincente, favorita da un cast di tutto rispetto, con punte di interpretazione granitiche. Uno stile in linea con il franchise, al quale non avrebbe però fatto male una sperimentazione più ardita. Per il resto formato che vince non si cambia; tornano quindi i voice over di Walt e i filmati di repertorio, che accompagnano virgilianamente lo spettatore nell'ormai tristemente noto mondo di corruzione ed ingiustizia che abbiamo conosciuto, ancorandolo al reale ed introducendo nuove tematiche e svincoli narrativi.

Aumenta la spettacolarizzazione della violenza, con rappresentazioni crude e realistiche che non lasciano spazio all'immaginazione. Lo stile realistico della rappresentazione cala lo spettatore al centro dell'azione, immergendolo nella tensione del momento e creando un livello di suspense che esplode quasi sempre nel colpo di scena. Le musiche di Gustavo Santaolalla e Kevin Kiner offrono il giusto contrappunto alla parte visiva e rappresentano un contributo decisivo alla buona riuscita dell'opera.

Narcos: Mexico stagione 2 “Narcos: Messico” ci offre una seconda stagione di transizione e come tale forse non rappresenta quel deciso passo avanti auspicato in precedenza. Siamo lontani dal fascino del male della prima, dall’introspezione sul personaggio di Félix nella sua inesorabile scalata verso l’impero e dall’umanità del personaggio di Kiki Camarena. Ora il mantra è mantenere l’equilibrio mentre tutto intorno rischia di cadere a pezzi. Si gioca molto di più sui colpi di scena, sui tradimenti e sulla spettacolarizzazione della violenza. Ma più in generale grava come un macigno il fantasma di Kiki Camarena, perché la vendetta della DEA è sì spietata e il personaggio di Walt è sì risoluto, ma manca quell’empatia che nella prima stagione legava lo spettatore al personaggio interpretato da Micheal Peña. La seconda stagione di “Narcos: Messico” funge così da cuscinetto per quella che, si spera, sarà la terza incarnazione dello spin-off, preparando il terreno alla guerra dei Cartelli.

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