One Day at a Time, recensione della seconda stagione

Il remake della celebre sitcom prodotta da Norman Lear continua a imporsi come uno dei prodotti “tradizionali” più interessanti nel catalogo di Netflix.

One Day at a Time, recensione della seconda stagione
Articolo a cura di

Lo scorso anno ci fu un po' di trepidazione per il debutto su Netflix di One Day at a Time, rifacimento dell'omonima sitcom in onda dal 1975 al 1984 e incentrata su una madre single. Questo perché da un lato si andava a toccare un prodotto proveniente dalla scuderia di Norman Lear, uno dei mostri sacri della televisione americana, e dall'altro il curriculum della società di streaming in materia di sitcom dall'impostazione tradizionale non era dei migliori. Timori smentiti sin dal primo episodio, poiché questo aggiornamento non cerca di essere qualcosa che non è: non ci sono né gli ammiccamenti nostalgici di Fuller House né la volontà di trasgredire a livello lessicale che caratterizza The Ranch. La premessa è la stessa dell'originale, ma con una famiglia di immigrati (per l'esattezza di origine cubana), riflettendo più realisticamente la popolazione multietnica dell'America di oggi e facendo, con intelligenza e cuore, satira politica e sociale senza rinunciare al principio fondamentale di ogni sitcom, quello di far ridere. Un equilibrio che la seconda stagione non solo mantiene, ma addirittura migliora.

America First?

La dichiarazione d'intenti è presente sin dal primo episodio del nuovo ciclo, dove un atto di bullismo porta a una discussione sincera sull'argomento delicato del razzismo, evocando il clima più apertamente xenofobo in vigore negli Stati Uniti da quando Donald Trump è stato eletto presidente (Trump stesso in questo caso non viene apertamente menzionato, ma le gag su di lui non mancano nel corso della stagione). Da lì si procede su due binari paralleli, mischiando impegno sociale (vedi le sottotrame sulla procedura per diventare cittadini americani o le proteste indette dall'adolescente Elena, la cui omosessualità è sempre stata trattata con il massimo rispetto e realismo) e trame orizzontali tipiche della sitcom (sia Penelope che la madre Lydia devono fare i conti con certi sviluppi nelle loro vite sentimentali), senza mai veramente dare l'impressione del già visto, anche di fronte a episodi inevitabili come quello ambientato in un unico luogo (l'allerta legata a un criminale in fuga costringe tutti a rifugiarsi a casa di Penelope) o quello incentrato sui flashback (la nascita di Elena). Il tutto confezionato in un modo che incoraggia attivamente il bingewatching, cosa non sempre scontata, anche nel caso di Netflix, quando si tratta di sitcom.

L'importanza della famiglia

Il pregio maggiore della serie è il suo non perdere mai di vista l'elemento vincente, ossia l'alchimia personale tra gli attori, tutti al massimo della forma, in particolare le due donne principali. Justina Machado, solitamente relegata a ruoli secondari, già lo scorso anno aveva dimostrato di saper reggere sulle proprie spalle una percentuale non indifferente del contenuto emotivo dello show, cosa che la seconda stagione ribadisce con un episodio interamente incentrato sugli effetti negativi che il lavoro in Afghanistan ha avuto su Penelope. E poi c'è Rita Moreno, ai tempi premio Oscar per West Side Story (a cui fa allusione uno dei pochi momenti di citazionismo aperto della serie) e successivamente apprezzata per la sua partecipazione a Oz, il primo serial drammatico della HBO (era il 1997). Oggi, nei panni di Lydia, fa tesoro di tutte le sue esperienze e ci regala un personaggio meraviglioso, in apparenza caricaturale ma in realtà ben definito e capace di far ridere, riflettere e piangere, talvolta nella stessa sequenza. Questo soprattutto nel finale di stagione, dove è lei a pronunciare due parole fondamentali per il futuro, con annesso applauso entusiasta del pubblico in studio: "Non ancora."

Netflix - Serie TV La sitcom di Norman Lear, aggiornata ai giorni nostri grazie a Netflix, continua a far ridere e riflettere, affrontando argomenti delicati come il razzismo e l'omosessualità mantenendo costante l'equilibrio tra intelligenza e divertimento. Il format tradizionale in questo caso si sposa perfettamente con il materiale a disposizione, generando un prodotto che non aspira ad andare oltre, ma semplicemente a fare bene ciò che ci si potrebbe aspettare da esso.

8