Dietro i lustrini, i creativi passi di danza, gli abiti da capogiro, dietro tutta la sfarzosa rappresentazione che ogni settimana va in scena nelle ballroom ci sono persone, uomini e donne, con dei sogni, delle aspirazioni, che continuano segretamente a coltivare nonostante il mondo esterno provi in tutti i modi a tagliarle fuori, emarginandole, facendole sentire degli scherzi della natura. Ma non sono sogni e aspirazioni irrealizzabili, anzi, sono lì, a portata di mano, abbastanza vicini da essere raggiunti con una ferrea determinazione e il supporto dei propri cari, il cui affetto va ben oltre quello dettato dalla biologia.
La seconda stagione di Pose, disponibile su Netflix, si pone quasi come il lato B di una favola molto inusuale, e che, nonostante possa sembrare appunto quasi come una storia fin troppo ottimista e "buona", vuole essere un messaggio di speranza, un motivo di orgoglio e positività, parlando di argomenti come la pandemia di AIDS degli anni '90 e la lotta di genere non in una maniera brutale, cruda, documentaristica, ma come una fiaba dai toni dolceamari, il cui fine ultimo non vuole rappresentarci fedelmente la sofferenza, quanto piuttosto lasciarci con il cuore rappacificato.
The category is...LIVE!
La creatura di Ryan Murphy nella sua stagione introduttiva (leggi qui la recensione di Pose Stagione 1) aveva presentato al grande pubblico una realtà, quella delle ballroom, non sempre ben conosciuta o ben descritta. La divisione in famiglie, le sfilate, le competizioni e le categorie andavano mostrate, spiegate, fino a far entrare lo spettatore nel vivo della questione, facendolo affacciare su un mondo pieno di rituali e regole interne. Un mondo ai più inedito e straniante, tanto chiusi e circoscritti erano costretti ad essere questi eventi.
Ad un mondo esterno che odia e disprezza d'altronde viene automatico rispondere chiudendosi e isolandosi il più possibile, fino a divenire incomprensibili e inavvicinabili. Questa seconda stagione, seppur in continuità narrativa e tematica con la prima, cerca di ampliare le proprie prospettive, uscire dal sistema chiuso che abbiamo imparato a conoscere e ci porta fuori, all'inseguimento di un sogno che nelle sue varie forme suona sempre come accettazione e realizzazione di sé. È così allora che più delle sale da ballo, l'attenzione si sposta sulle case, le strade, gli uffici, e purtroppo gli ospedali.
WORK!
La casa di Blanca Evangelista (MJ Rodriguez) è ancora una volta il centro della narrazione, attorno alla quale poi gravitano tutti gli altri personaggi, in un movimento burrascosamente e simultaneamente centripeto e centrifugo, tra scontri, chiarimenti, provocazioni e rivelazioni dolorose. Le varie famiglie saranno anche in competizione, nemiche sulla passerella, ma sono accomunate tutte dalla stessa umana sofferenza, che rende quelli che consideriamo nemici di facciata, fratelli e sorelle nella vita vera, quella che conta davvero.
La forza di Pose, il suo avere un cast eccezionale, pieno di caratteri magistralmente sviluppati, è ancora lì inscalfibile, ancora una volta a ribadirci quanto Murphy sia un portento nel tratteggiare personaggi veri ed interessanti, il le cui storyline si srotolano e si incrociano, veri singoli romanzi di formazione, che vedono Blanca come madre nucleo di un sole i cui raggi si allontanano, crescono, maturano, si realizzano, grazie a lei, motore immobile della serie.
Per quanto infatti Damon (Ryan Jamaal Swain) e il suo talento nel ballo, la scalata nel mondo della moda di Angel (Indya Moore), la dirompenza della madre/amica/nemica Elektra (Dominique Jackson), siano rappresentanti e realizzatori dello straordinario e fiabesco sogno che è la realizzazione di sé, la madre dell'anno è l'anima della serie, colei che dall'ordinario, dal quotidiano, dal sacrificio, prende le sue forze e porta avanti il sostentamento della sua famiglia. Non è bella, non ha talenti particolari, ma ha il cuore e lo spirito per lottare, non arrendersi, e tenere in piedi i suoi cari.
POSE!
Del resto gli anni in cui prende vita questa seconda stagione sono ancora più oscuri e perversi. Dal 1987 siamo passati al 1990, spartiacque tra vecchio e nuovo mondo. Le condizioni di salute sono sempre più precarie, la diffusione dell'HIV sempre più capillare, e dall'altro lato il successo planetario del singolo Vogue di Madonna sembra aver dato i famosi quindici minuti di notorietà alla comunità dei ball.
Quella che sembra un'opportunità, il momento di rivalsa e forse di accettazione, simboleggiata dall'euforia e la smania, tra la popolazione bianca e ricca, di imparare i passi di danza una volta emblema della ritualità intima delle famiglie. Invece, come ogni hit mainstream, il tutto passa di moda, la gente dimentica e si disinteressa, le ballroom tornano nel sotterraneo mondo oscuro. E con loro tutti i problemi e le richieste di assistenza, aiuto, giustizia. Non rimane allora che combattere da soli, alzare la voce e non arrendersi, resistere fino alla fine.
È quello che fa Pray Tell (Billy Porter), istrionico capobanda, che abbiamo imparato ad amare per il suo irresistibile carisma, e che ancora una volta è anche il primo e più intimo portavoce della sofferenza; malato, circondato dalla morte, sull'orlo del tracollo, il suo è il viaggio di accettazione più bello. Perché la sua non è un'accettazione che passa dall'esterno, che mira ad un riconoscimento degli altri, è invece un viaggio tutto interiore, per raggiungere lo stadio ultimo della felicità, far pace con sé stessi.
Dietro l’eccezionale perizia tecnica e la spettacolarità che abbiamo imparato a leggere come marchio di fabbrica della serie, Pose mette i lustrini e le competizioni ancora di più in secondo piano per trasportarci in un viaggio ancora più intimo, sentito e personale, che trae forza dai suoi protagonisti per trasformarsi in un messaggio universale dalla fortissima portata. La chiusura di un ciclo che ci ha dato tanto, ma che sappiamo già pronto a riaprire le danze per una terza stagione.