Una giovane donna viene ritrovata gravemente ferita, in compagnia di una bambina, sul ciglio di una strada nei pressi del bosco. I soccorsi arrivano appena in tempo e il trasporto d'urgenza all'ospedale, pur costando un'operazione chirurgica dell'ultimo minuto, permettono che la paziente abbia salva la vita. La piccola, che sostiene di chiamarsi Hannah Goliath, ha testimoniato come l'uomo che le ha investite si sia fermato e prestato aiuto, e che la colpa dell'incidente non sia del guidatore. Ad ogni modo diverse cose non tornano, a cominciare dalla presunta identità della ragazza: secondo le indagini si tratta di Lena Beck, data per scomparsa tredici anni prima.
Ma come scopriremo già nella prima puntata de La mia prediletta, l'arrivo dei genitori di Lena smentisce questa ipotesi: speranzosi di poter riabbracciare quella figlia perduta, trovano davanti a loro sul letto d'ospedale una perfetta estranea. Il caso sta molto a cuore a un ispettore di polizia, amico della famiglia, che se ne occupa fin da quanto Lena è sparita nel nulla, e le sue indagini si affiancano a quelle ufficiali condotte dalla coriacea detective Aida Kurt. Nel frattempo la scoperta di un altro bambino rapito, Jonathan, tenuto nascosto in un bunker fino ad ora e liberato, che considera Hannah come sua sorella, apre ulteriori piste e la verità diventa sempre più complicata da svelare...
Un mistero da risolvere
Giunge dalla Germania questa miniserie mystery, esclusiva del catalogo Netflix - per altre uscite recenti leggete la nostra rubrica sulle serie tv in arrivo su Netflix a settembre 2023 - che in sei puntate dipana una vicenda dai contorni torbidi e morbosi, rifacentisi a certe base archetipiche dei captive-movie con un notevole numero di colpi di scena a muovere la storia e ai relativi personaggi.
Quasi ogni puntata si conclude infatti con un cliffhanger più o meno esasperato, al fine di mescolare le carte e spingere lo spettatore a cercare una propria soluzione: una sceneggiatura enigma che però ha il demerito, nella sua effettiva rivelazione, di non essere così incisiva come preventivato, con inoltre diverse forzature che appaiono ancor più marcate dopo l'effettiva resa dei conti. Dal personaggio della bambina che si chiama Hannah, un nome palindromo come da lei stesso espletato a richiamare l'omonima figlia di Amy Adams in Arrival (2016), fino a quella stanza chiusa dove la protagonista si trova suo malgrado rinchiusa, in una sorta di riproposizione in toni più tipicamente di genere del dramma vissuto da Brie Larson in Room (2015) - la nostra recensione di Room è a portata di clic - l'immaginario di La mia prediletta sembra voler richiamare un cinema e una serialità di genere più o meno contemporanei, con il tono che si tinge via via di atmosfere più tensive.
Certo il mood e l'atmosfera sono inevitabilmente legate alla macchinosità dell'assunto e ben presto quando il cuore del racconto viene progressivamente svelato si ha l'impressione che lo script abbia perso, dimenticato, qualcosa per strada, limitandosi ad aggiungere invece che ad asciugare: anche le stesse figure principali perdono di credibilità con lo scorrere dei minuti, dopo un inizio nel quale si presentavano cariche di potenzialità poi non del tutto espresse.

Va detto che le interpretazioni del cast riescono a reggere bene il gioco e se la vicenda non prende derive eccessivamente tortuose e pacchiane è anche grazie all'impegno degli interpreti, che cercano di mantenere i loro alter-ego a contatto con quell'umanità che è poi calamita empatica per il pubblico, che non ha caso ha risposto in massa catapultando la serie nella top 10 delle più viste sulle piattaforma.
Dettagli che emergono da battute e dialoghi, soprattutto nelle frasi sibilline pronunciate dalla bambina, vera e propria chiave di (s)volta per gli eventi a venire, anche con quei presunti flashback che sottintendono ad ulteriori risvolti. A tal proposito un plauso particolare alla giovanissima Naila Schubert, undici anni appena ma qualità già notevoli, con una carriera già ben avviata: la ricorderete forse in un'altra recente produzione Netflix come Bird Box: Barcellona (2023).
Dentro e fuori
Una serie di regole da seguire, con vittime cresciute in cattività e altre rapite e sottratte alla vita all'aria aperta per mano di una mente folle, forse multipla, che diventa villain invisibile e misterioso almeno fino a quando tutti i nodi vengono infine al pettine. L'alternanza tra piani temporali, sfruttata tramite i ricordi e i traumi subiti dalle persone direttamente coinvolte, permette al ginepraio di sfumarsi vicendevolmente, anche se a tratti si ha l'impressione che vi sia troppo carne al fuoco e che non tutte le fettine siano state cotte a puntino.

Ossessioni più o meno celate, rimossi mai completamente sepolti, vuoti da colmare anche con new-entry che riportano inevitabilmente a un tragico passato: indizi che si arrovellano e pungolano lo spettatore, fino a quell'epilogo che risulta forse troppo sbrigativo. La mia prediletta è d'altronde l'adattamento dell'omonimo romanzo, best-seller nella patria tedesca - scritto da Romy Hausmann e pubblicato anche nel nostro Paese - e condivide con la fonte letteraria i principali snodi narrativi, all'insegna di un approccio moderno al genere che guarda alla contemporaneità, tenendo ben saldi i piloni archetipici del filone. Una formula che almeno in questa trasposizione episodica convince ma senza entusiasmare.