Raised By Wolves Recensione: la serie sci-fi prodotta da Ridley Scott

Lo show di Ridley Scott convince nel rappresentare il futuro distopico di un'umanità alla ricerca di un nuovo inizio.

Raised By Wolves Recensione: la serie sci-fi prodotta da Ridley Scott
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Non è passato molto da quando abbiamo pubblicato la nostra anteprima di Raised By Wolves, nella quale avevamo espresso le nostre prime impressioni sulla serie sci-fi prodotta da Ridley Scott (Alien, Blade Runner) e scritta da Aaron Guzikowski (Prisoners). In quell'occasione avevamo classificato lo show HBO Max come una scommessa potenzialmente vincente. E non possiamo che confermare il giudizio, al netto di qualche riserva sul piano narrativo.

Una vicenda fondata su elementi archetipici in un mondo inesplorato dove si muovono gli interpreti, tra i quali spiccano Amanda Collin e Abubakar Salim nei rispettivi ruoli di Madre e Padre, i due androidi la cui missione mira a ricostruire l'umanità su Kepler-22b, dopo che una guerra tra Atei e Mitraici ha distrutto la Terra. Se le uscite Sky di marzo ci proiettano verso nuovi lidi, la fine di Raised By Wolves rappresenta senz'altro la conclusione di una delle prime grandi produzioni di quest'anno.

Madri, padri e figli

C'è una sensazione di discontinuità rispetto all'offerta generale di show che offre il mercato, quando ci si approccia a Raised By Wolves. Un po' come avevamo avuto modo di scrivere nella nostra recensione di See, il primo impatto con un mondo da reinventare è sempre affascinante e comporta diversi rischi. Nella serie prodotta da Ridley Scott, in un futuro non troppo distante dal nostro, l'umanità si è ritrovata divisa in due fazioni, il cui scontro ha condannato il Pianeta Azzurro, lasciando come unica soluzione di salvezza il viaggio spaziale verso l'esopianeta Kepler-22b. Novelli Adamo ed Eva, un'androide da guerra mitraica riprogrammata come perfetta puericultrice profeta dell'ateismo, Madre, e uno di servizio che cerca di fare del suo meglio per sondare le leggi matematiche dell'umorismo e creare sempre nuovi indovinelli da proporre, pur restando un fedele e premuroso Padre, disposto a tutto pur di difendere la propria missione di allevare una nuova umanità fedele solo alla propria razionalità, pur conscio di non poter competere con l'indole distruttiva di Madre quando quest'ultima entra nella modalità battagliera di Necromancer.

È indubbio che il personaggio più affascinante dello show sia proprio quello interpretato da Amanda Collin, che riesce a raccogliere ed esprimere tutte le idiosincrasie di un androide che giorno dopo giorno comprende ed assimila l'umana scintilla che la logica non può replicare. Sentimenti quali l'amore e la maternità sbocciano tra le righe di codice di Madre, salvo poi rivelarsi tutt'altro, ma questo è un altro discorso. Il percorso dell'androide è per noi di un'elementarità sconcertante, ma è proprio questo a suscitare l'empatia con lo spettatore. Niente di nuovo sotto il sole, chiariamoci, derivativo quanto vogliamo, senza raggiungere i risultati del delicato ecosistema creato da opere come Ex Machina, ma qui è il tema dirompente della maternità, surrogata e no, a rappresentare il valore aggiunto, oltre a generare in determinate situazioni un effetto di straniamento contestuale alle intenzioni di sceneggiatura.

Più genuina, se vogliamo, la figura di Padre, l'androide che comprende sin dall'inizio i propri limiti di programmazione - è pur sempre un semplice robot di servizio, comparato all'equivalente cibernetico di una divinità della guerra -, ma ciò si limita solamente alle proprie capacità di attendere alle fasi più concitate e rischiose della propria missione. Perché dal punto di vista emotivo - se così possiamo chiamarlo - Padre è paradossalmente consapevole della propria personale elaborazione dell'umano sentimento, che lo porta ad esprimere con ritrosia un ventaglio di emozioni che vengono inizialmente viste con sospetto da Madre; dall'inadeguatezza, alla gelosia, all'affetto e, forse, all'amore.

La controparte di questa bizzarra, quanto riuscita, coppia di androidi è rappresentata dal lato umano della vicenda genitoriale, incarnato dagli Atei Marcus (Travis Fimmel) e Sue (Niamh Algar), impostori per necessità. I due, infatti, hanno preso il ruolo e le sembianze di due Mitraici per poter trovare salvezza sull'arca del dio Sol, in partenza per il viaggio spaziale, accorgendosi troppo tardi che gli individui del cui sangue si sono macchiati avevano anche un figlio che, non accorgendosi dell'imbroglio, crede di essersi imbarcato con i propri genitori biologici.

Il tema genitoriale si fa qui fin da subito più comprensibile ed avvincente - al di là della controversia delle dinamiche -, perché fa leva su uno scenario più viscerale. Assistiamo infatti ai primi approcci di Marcus e Sue con il figlio Paul; un rapporto che si rivela di per sé molto meno impostato rispetto a quello che ci viene fatto intendere fosse quello tra Paul e il vero Marcus e ci fa in parte digerire l'irredimibile crimine del quale si sono macchiati i due.

Un idillio che non fa che crescere e prosperare, al punto che i due impostori sentono una sorta di legittimazione del loro rapporto con il figlio della coppia uccisa. Interessante, da questo punto di vista, anche la situazione di Sue, che si ritrova a provare sensazioni da sempre desiderate e mai realizzate, a causa dell'impossibilità di avere figli. Su questo rapporto in continua evoluzione, controverso per sua stessa natura, pende la spada di Damocle della verità che, se rivelata, potrebbe portare all'esecuzione degli impostori e, soprattutto, alla perdita di quel figlio che i due hanno imparato ad amare.

Il quadro generale delle figure genitoriali, nessuna a suo modo naturale, ci porta alla scoperta di chi siano i figli kiplinghianamente cresciuti da questi lupi. E non sorprende il trovare in essi l'epitome della purezza, creta vergine da plasmare, nel bene e nel male. Ognuno di essi è frutto dell'educazione ricevuta; così i piccoli mitraici dell'arca all'inizio non vedono al di là del loro concetto di fede e sono reticenti all'elaborazione di soluzioni che confutino la tesi razionalista, ma la capacità di adattamento sarà un fattore determinante nel loro sviluppo e maturazione.

Più interessante è senza dubbio il percorso di Campion (Winta McGrath) l'unico sopravvissuto della nuova generazione di umani cresciuta da Madre e Padre su Kepler-22b. Il ragazzo è la dimostrazione che ci sono questioni che vanno oltre la capacità razionale degli esseri umani. La vita stessa, la morte, il destino. Temi di natura filosofica che non vogliono trovare in Raised By Wolves una discussione di carattere accademico, ma che fungono da sostrato per le vicende dei nostri e necessitano di un livello di astrazione che arriva anche ad ipotizzare la presenza di un qualcosa che è altro da noi che regoli la nostra stessa esistenza, maturando così il seme di una fede spontanea che dia risposta e speranza ai misteri dell'universo e dell'umano essere.

I misteri di Kepler-22b

Uno dei maggiori punti di forza, ma anche di debolezza della serie, risiede nella caratterizzazione di Kepler-22b, il misterioso pianeta sul quale atterranno Madre e Padre per adempiere alla propria missione e sul quale dovranno scontrarsi con i Mitraici. L'ambiente desertico e la location africana richiamano volutamente la culla dell'umanità, ma sin dall'inizio ci troviamo dinanzi ad una mitologia che serpeggia in sottotesto. Enormi buchi nel terreno, all'apparenza scavati da giganteschi rettili estinti i cui resti sono disseminati tutt'intorno al campo base degli androidi, sono la memoria di un tumultuoso passato.

Ad infittire il mistero, anche la presenza di costruzioni artificiali dall'origine ignota, che i Mitraici, alla ricerca della terra promessa profetizzata nelle scritture, riconducono alla volontà del dio Sol. Misteriose e raccapriccianti creature si muovono nell'ombra, assaltando di volta in volta i nostri e facendo sorgere più di un dubbio sulla loro reale natura; perplessità che vengono in parte fugate da un'accattivante teoria che chiude la stagione e che speriamo troverà seguito e formalizzazione negli episodi a venire.

Sì, perché uno degli aspetti meno appaganti di Raised By Wolves è il dosaggio di quella cripticità che affascina di primo acchito, ma che tende a deludere nel momento in cui ci si rende conto - un po' come accadeva con Lost - che il focus viene di volta in volta spostato per ampliare il mistero, fornendo risposte parziali, spesso con modalità apparentemente slegate dalla logica interna della vicenda.

Sia chiaro, le soluzioni sono presenti e possono facilmente far intendere un quadro generale di quanto sia accaduto su Kepler-22b in passato, ma ciò avviene troppo spesso tramite dinamiche narrative di servizio: visioni, pittogrammi e misteriose voci che sembrano riconducibili al culto di Sol, ma che potrebbero annidarsi altrove. Elementi che alimentano il racconto, ma che non dipendono dall'azione dei nostri protagonisti che, al contrario, ne vengono condizionati per far sì che la narrazione proceda sul percorso tracciato da Guzikowski.

Anche per questo motivo gli ultimi episodi della serie soffrono di un calo fisiologico della qualità, soprattutto nel finale, che paga qualche forzatura di troppo in un comparto narrativo che fatica a restare nei binari per la troppa fretta nel preparare il terreno agli eventi futuri, aggiungendo molta carne al fuoco e scadendo in momenti di facile fan service, che risultano in una parziale sacrificio della propria identità.

L'impronta di Scott

In questo quadro tematico e narrativo si staglia la sapiente grammatica di Ridley Scott. Nonostante il regista britannico sia il demiurgo dei soli primi due episodi, la sua è un'impronta che permane anche nelle puntante successive e che ci fa comprendere quanto la sua influenza sia stata importante nella concezione di questo show. D'altronde Scott non poteva che andare a nozze con i temi presenti in questo racconto: la dicotomia umano/androide, la questione della predeterminazione e dell'esistenza di entità altre dall'uomo, la tragedia della guerra e il rapporto di quest'ultima con la fede, con l'origine stessa della vita.

Tutte questioni affrontate nel corso della sua sterminata filmografia da svariati punti di vista. Come non pensare, su tutti, agli androidi di Blade Runner e di Alien, alle atmosfere dello spazio ignoto che hanno segnato il cinema di fantascienza per i decenni a venire. In Raised By Wolves, in particolare, Scott sembra recuperare gran parte degli stilemi condensati nelle ultime opere dedicate alla saga degli xenomorfi, Prometheus e Alien: Covenant - basti pensare ai minuti iniziali dell'atterraggio, che condividono con il primo le medesime inquadrature - pur senza azzardare un protagonista machiavellico quanto l'androide interpretato da Michael Fassbender.

La formazione di Scott nel campo dell'advertising ha sempre influito sulla sua visione registica. Per lui il film - in questo caso la serie - rappresenta prima di tutto un'esperienza visiva e Raised By Wolves non fa eccezione. D'altra parte, l'essere un "costruttore di mondi" prima che un narratore è anche il tallone d'Achille della sua arte.

La fotografia alterna la palette degli esterni che si attesta su toni caldi, con giochi di predominanza cromatica sugli elementi artificiali del campo base, agli interni che, soprattutto nelle numerose sequenze legate al relitto dell'arca dei Mitraici, recuperano il gusto di Scott per la rappresentazione chiaroscurale degli ambienti in rovina, che gioca sapientemente sul bilanciamento tra luce artificiale ed oscurità. A tal proposito possiamo anche notare quanto l'attenzione al dettaglio sia a livelli altissimi anche nei set più minimali, altro caposaldo del regista britannico, che riesce inoltre a sfruttare la biodiversità dell'ecosistema africano per restituire una visione primordiale del pianeta.

A dare man forte alla regia interviene anche un cast all'altezza che, oltre alle ottime prove di Amanda Collin e Abubakar Salim, vede la graduale e convincente evoluzione dell'interpretazione di Marcus da ateista irremovibile a Mitraico ortodosso, merito anche del buon lavoro svolto da Travis Fimmel, che i più hanno già avuto modo di apprezzare nei panni di Ragnar Lothbrok in Vikings. Più intimista il percorso di Niamh Algar nei panni di Sue, che riesce ad accompagnare un delicato istinto materno ad una grinta che ricorda sotto certi aspetti quella Sigourney Weaver tanto cara a Scott.

Raised By Wolves Non è tutto oro quel che luccica in questo Raised By Wolves. Alcune dissonanze narrative si accompagnano ad una sceneggiatura che tende a far leva su qualche cadeau di troppo nel corso degli ultimi episodi, cercando di raggiungere un obiettivo che forse avrebbe necessitato di una gestazione migliore. Resta il fatto che lo show prodotto da Ridley Scott conferma le aspettative e si presenta come una mosca bianca nel panorama seriale di quest'inizio anno, giocando molto la partita a livello derivativo, ma restituendoci allo stesso tempo un prodotto genuino che fa dell'archetipo il suo punto di forza e della primordialità il suo punto d'inizio. L'impronta di Scott permea l'intera produzione, che beneficia degli stilemi del regista che più ha scritto le regole della fantascienza negli ultimi quarant'anni, unendosi alle ottime performance del cast. Se proprio non possiamo gridare al capolavoro, non possiamo che plaudere ad un esperimento riuscito

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