She's Gotta Have It: Recensione della serie di Spike Lee

Spike Lee riprende la sua prima creatura e la trasforma in una serie televisiva, disponibile su Netflix, che è specchio del contemporaneo

She's Gotta Have It: Recensione della serie di Spike Lee
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I motivi che hanno spinto Spike Lee a riesumare la sua prima creatura cinematografica, per rimpastarla nel formato seriale a praticamente trent'anni di distanza, possono essere tanti e probabilmente non tutti conoscibili. Quello che più facilmente riusciamo ad immaginarci è che un'idea come quella di She's gotta have it ed un personaggio quale Nola Darling sono, forse purtroppo, di un'attualità ed una efficacia disarmanti. Purtroppo perché se a distanza di tre decenni un'autore non certo sprovveduto, ma estremamente attento alle realtà a lui care, avverte l'esigenza di tornare su determinate tematiche, significa che il mondo non sta poi andando come dovrebbe, verso una maggiore situazione di dignità e uguaglianza. L'operazione di Lee allora è quella di riprendere un soggetto vecchio per raccontare il contemporaneo, e per farlo decide di adottare lo strumento narrativo che più di tutti rappresenta i nostri tempi, la serialità televisiva. Nasce così She's gotta have it, serie da dieci episodi, tutti scritti e diretti da Spike Lee in persona, disponibile dalla settimana scorsa su Netflix, la più significativa delle piattaforme tra quelle che hanno contribuito a determinare il futuro e il predominio del mezzo.

That's Brooklyn

Quello che ci aspettavamo, preso anche atto dei segnali mostrati nel primo episodio, conoscendo la storia espressiva del regista, era un prodotto sopra le righe ma profondamente impegnato, che riuscisse, dietro la sua patina caricaturale, a cogliere in maniera naturalistica non solo il generale spirito del tempo, ma anche la specifica voce di una determinata parte di mondo, che servisse poi da esempio generale. Brooklyn, ed in particolare Fort Greene, è colta nella sua specificità di terra della molteplicità, dell'orgoglio popolare, della volontà di rivalsa; così come perfettamente viene descritto l'attuale scontro culturale tra l'antico retaggio di povertà ed eterogeneità e il movimento di rifondazione, quella gentrification che sta portando i ricchi hipster bianchi ad "invadere" una terra che non gli appartiene. È un'opera politica, ma del resto non potremmo aspettarci diversamente da uno come Spike Lee, che ha fatto della rivendicazione di una dignità afro-americana, e per riflesso di tutte le minoranze statunitensi, la sua più riconoscibile impronta tematica.

In questo senso non sfuggono all'occhio del regista i vari attentati all'integrazione popolare, primo tra tutti maturato il 9 novembre 2016 con l'elezione di Donald Trump a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, evento che assume inevitabilmente una rilevanza notevole nel discorso portato avanti durante la serie. Tutto questo messo su schermo con il riconoscibile gusto estetico di Lee, tra esuberanze registiche, messe in scena iconiche, caratteri che nel loro essere pop e spudoratamente black arrivano al grottesco. Brooklyn vive grazie alle catene d'oro, la santeria portoricana, gli artisti di strada e tutte le eccentricità che solo un grande calderone come questo può offrire. Tutta questa esplosione di idee e visioni però aveva bisogno di un filtro che le reindirizzasse nella maniera giusta, un occhio privilegiato capace di canalizzare questa esigenza comunicativa. C'era bisogno di Nola Darling.

The Free Black Female form

DeWanda Wise riesce a dar vita ad un personaggio sfaccettato, solido, e che ben veicola le intenzioni del progetto. Nola è una donna ostinatamente forte, ma in realtà piena di insicurezze; convinta del suo voler vivere per e con l'arte, ma allo stesso tempo indebolita dalla paura di non farcela. È il caparbio ritratto del femminile, sempre in lotta per poter accedere ad un posto di rispetto paritario, continuamente costretto a sgomitare per l'affermazione e schivare possibili violenze. Non c'è niente di retorico nel suo personaggio, così come in realtà niente di veramente già detto; eppure il modo in cui è gestita riesce a rinnovare e rafforzare questo storico grido di denuncia. La sua vita, il suo quotidiano, riesce con estrema naturalezza a rimbalzare tra lo specifico e il generale, così da poter leggere la sua esistenza e come identità singola e come archetipo, senza mai perdere credibilità. Non è un caso che sia un'artista, così come non è un caso che la sua arte graviti principalmente intorno ai ritratti, ai volti.

L'operazione compiuta da Nola è la stessa che mette in piedi Spike Lee, con la sua complessa costruzione di primi piani ed effetti Rashomon attraverso i quali leggiamo l'interiorità delle anime rappresentate. È un gioco di caratteri dove la signorina Darling non è l'unica a ricoprire un ruolo. Tutti, dalle sue amiche ai tre amanti Mars, Jaime e Greer, tre fondamentali comprimari, vogliono racchiudere svariati tipi possibili, impreziositi da altrettante caratterizzazioni audio-visive che ne sottolineino ancor di più l'essenza. In questo senso vogliamo appuntare una nota finale sulla colonna sonora, più di semplice orpello, ma vera compagna di viaggio, che rendendo omaggio ai grandi della musica black durante i decenni, impreziosisce la narrazione, creando un effetto descrittivo ancor più efficace. Le ultime considerazioni non possono che essere su quanto sia sempre più uso dei grandi autori rivolgersi alla serialità, che sia effettivamente televisiva o in streaming, novello porto dove attraccare un po' per convenienza e visibilità, un po' per necessità di spazi narrativi più ampi. Ma questa è un'altra storia.

She's gotta have it - stagione 1 Spike Lee riprende in mano la sua opera d'esordio e, riattualizzandola in forma seriale, riesce a trarne tutta la forza latente per mettere in scena un manifesto culturale potente e profondamente cool. Che sia il femminile, la gentrification o la black vindication, il messaggio ci arriva chiaro e forte attraverso la splendida voce di Nola Darling.

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