The Good Cop, la recensione della prima stagione

Andy Breckman debutta su Netflix con un procedurale elementare ma divertente, incentrato su un bislacco rapporto padre-figlio.

The Good Cop, la recensione della prima stagione
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Anthony Caruso Jr., detto TJ, è un poliziotto buono, forse anche troppo: ligio al dovere, rispettoso delle regole, non può neanche trovare una moneta da un centesimo per terra senza chiedere a voce alta chi sia il legittimo proprietario. Per questo motivo, nonostante le sue competenze indiscutibili, quasi tutti i colleghi evitano di lavorare con lui, con l'eccezione di Burl Loomis, prossimo alla pensione e seguace della filosofia del massimo risultato col minimo sforzo (nel periodo invernale non esce dalla macchina per controllare le scene del crimine, causa freddo), e Cora Vasquez, che ha con TJ un rapporto di attrazione reciproca che si traduce in simpatiche prese in giro mentre sono in servizio.
E poi c'è Anthony Sr., il poliziotto cattivo: condannato al carcere alcuni anni addietro per corruzione, è ora in libertà vigilata e costretto a vivere col figlio. Il loro rapporto è complicato a causa delle visioni radicalmente differenti sull'etica professionale, ma l'esperienza del genitore si rivela spesso una risorsa preziosa, anche quando rischia di mettere a repentaglio le indagini per motivi personali. Questa è la premessa generale di The Good Cop, la nuova serie comico-poliziesca di Netflix, basata su un programma israeliano. Un procedurale d'altri tempi, che segna il ritorno alla televisione di Andy Breckman a nove anni dalla conclusione di Monk, anch'esso un prodotto più interessato a indagini classiche che a casi basati sulla cronaca nera più attuale e disperata.

Bingiare o non bingiare, questo è il problema


Per sua natura, The Good Cop dovrebbe sfidare la logica di fruizione tradizionale dei programmi originali di Netflix: in quanto procedurale, con appena qualche accenno di trama orizzontale (nella fattispecie la morte della madre di TJ e il rapporto di quest'ultimo con Vasquez), teoricamente non invoglia più di tanto lo spettatore a darsi al bingewatching che contraddistingue i vari House of Cards, Daredevil, Stranger Things e BoJack Horseman. Inoltre, la visione completa dei dieci episodi conferma l'impressione lasciata dal primo: questo è un programma strategicamente anacronistico, cosa che può essere al contempo un vantaggio e uno svantaggio. Nonostante la presenza su Netflix, la violenza è tutta fuori campo, il sesso anche, e l'assenza di parolacce è trasformata in un inside joke sulla correttezza politica eccessiva di Caruso Jr., talmente "pulito" (in tutti i sensi) che si troverebbe a disagio persino in Fuller House, altra serie della piattaforma di streaming che nasce all'insegna della nostalgia ma si concede qualche allusione esplicita tenendo conto dell'evoluzione dei tempi. Eppure il meccanismo ha una sua efficacia, tramite la scelta di raffigurare i titoli dei singoli episodi con degli articoli di giornale, all'inizio e poi di nuovo alla fine, per generare interesse per il caso successivo. Difficile resistere dinanzi alle promesse di scritte come Qual è il segreto della supermodella? o Chi ha tagliato in due la signora Ackroyd?.

Attenti a quei due!

Breckman, coadiuvato dal regista di fiducia Randy Zisk, si avvale di un'atmosfera piacevolmente innocua, tutta impostata su un lavoro di scrittura lineare e semplice, dove l'importante non è tanto il caso in sé (l'identità dell'assassino è facilmente intuibile fin da subito in quasi tutti gli episodi), quanto il suo impatto sui quattro personaggi principali in generale e il duo padre-figlio in particolare. E qui, come già in Monk, risulta evidente il punto di forza maggiore dello show, ossia il casting.

Certo, manca quell'elemento peculiare in più che rendeva particolarmente intrigante Adrian Monk, affetto da disturbi ossessivi compulsivi, ma l'alchimia tra il veterano Tony Danza e il cantante divenuto attore Josh Groban è solida al punto giusto, con tutte le carte in regola per un approfondimento ulteriore qualora la serie dovesse continuare. E anche in quel caso, dopo un po' di tentennamento iniziale sul numero di episodi da vedere in un colpo solo, ci faremo sedurre, nonostante tutto, dai titoli delle puntate e dalla promessa di un rapporto disfunzionale a quattro che fa forse il minimo indispensabile, ma lo fa bene.

The Good Cop Pur trasferendosi su Netflix, lo sceneggiatore-showrunner Andy Breckman rimane fedele alla propria poetica: scrittura semplice, atmosfera pulita e a tratti desueta, humour a mille nelle interazioni tra i protagonisti. Bisognerà aspettare l'eventuale seconda stagione prima che il meccanismo funzioni oltre il minimo indispensabile, ma le promesse/premesse per arrivarci ci sono tutte, e l'alchimia perfetta fra Tony Danza e Josh Groban è più che sufficiente per appassionarsi alle loro indagini abbastanza tradizionali (ma non troppo).

7