The Innocents: recensione della serie Netflix

Inghilterra e Scandinavia si incontrano per un prodotto di genere ben confezionato ma anche rappresentativo dei difetti della nuova narrazione seriale.

The Innocents: recensione della serie Netflix
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Nel titolo della sua recensione, la testata americana The Atlantic definisce The Innocents "il dramma più Netflixoso ad oggi", riferendosi principalmente al suo essere un miscuglio di elementi di altre serie popolari disponibili sulla piattaforma di streaming (13, The OA), ma anche per il suo essere sintomatico di un difetto generale che accomuna molte delle serie drammatiche di Netflix: il vizio di allungare il brodo per rispettare la convenzione di un determinato numero di episodi (solitamente tredici, ma nel caso di The Innocents sono "solo" otto), e la filosofia di trattare l'intera stagione come un lungo film, sacrificando l'identità distinta della singola puntata.
Mentre le produzioni comiche e/o animate mettono ancora in risalto i punti di forza del singolo episodio (basti pensare a Master of None che costruisce ogni puntata intorno a un determinato tema e ne fa quasi un cortometraggio a sé stante), quelle drammatiche partono dal presupposto che lo spettatore voglia vedere la stagione intera il più rapidamente possibile, e quindi si concentrano sul minimo indispensabile per invogliare al bingewatching. E da quel punto di vista The Innocents è davvero "Netflixoso", costruito a tavolino per soddisfare i criteri del famoso algoritmo che detta le logiche di programmazione.

Otto ore (di troppo?)

Sul piano strettamente narrativo la serie ideata da Simon Duric e Hania Elkington (quest'ultima sceneggiatrice ufficiale di tutti gli episodi) ha tutte le carte in regola per attirare l'attenzione, con due storyline che procedono in parallelo: da un lato, la giovane inglese June McDaniel (Sorcha Groundsell) che scappa di casa con l'amato Harry Polk (Percelle Ascott) e scopre di avere capacità paranormali (è in grado di assumere le sembianze delle persone con cui entra in contatto fisico, con effetti secondari che emergono nel corso dello show); dall'altro, le attività del misterioso Ben Halvorson (Guy Pearce), che in una località remota della Norvegia gestisce uno stabilimento per "curare" le persone dotate dello stesso potere di June, tra cui la madre della ragazza (Laura Birn). Sulla carta un buon soggetto da young adult, sfruttabile sul grande schermo in un progetto di circa due ore. Su Netflix invece quelle ore sono quasi quadruplicate (ogni puntata dura tra i 45 e i 55 minuti), ma senza intuizioni particolarmente efficaci per giustificare un tale aumento: sebbene la premessa generale sia relativamente ben introdotta nel primo episodio, la trama vera e propria fatica a ingranare prima del quinto, ed è solo negli ultimi due, quando le linee narrative principali si intersecano, che la vera carne al fuoco si manifesta.
Nell'attesa, il regista Farren Blackburn, firmatario di sei episodi su otto, ripiega soprattutto sul fascino malinconico e un po' inquietante dei paesaggi scandinavi, sfruttando appieno la natura internazionale del progetto ma senza replicare in modo pienamente efficace la solidità narrativa e strutturale della serialità nordica, ibridata per l'occasione con quella britannica. Ne consegue un mistero eccessivamente diluito, dove molti spunti sono appena abbozzati e altri elementi (tra cui proprio il personaggio di Halvorson, teoricamente norvegese ma, presumibilmente per giustificare il casting di Pearce, predisposto a esprimersi in inglese con accento australiano) del tutto accantonati, forse in vista di una seconda stagione tutt'altro che garantita.

Amore giovane


La struttura schematica e piuttosto ripetitiva dei primi episodi influisce anche sullo sviluppo dei personaggi, per lo più relegati a piccoli sprazzi di spessore psicologico, solitamente legati al lento evolversi della trama orizzontale, in attesa dello spazio giusto concesso dalle puntate conclusive. L'eccezione notevole - che è anche il nucleo emotivo dello show fino al drammatico finale che funziona sia come conclusione che come preludio per un eventuale secondo ciclo molto diverso - è il rapporto tra June e Harry, reso con tutte le sfumature nonostante la caratterizzazione di lei, così come la performance dell'attrice, sia a tratti frammentata e suddivisa tra più personaggi. Sono loro i due innocenti del titolo, vittime di un destino crudele e manipolatore, protagonisti ideali di un racconto di formazione con tinte di genere che in altre circostanze avrebbe potuto segnare una svolta nella programmazione di Netflix per un determinato target. Così invece è solo un godibile thriller, ben girato e recitato, che nella migliore delle ipotesi potrà fare tesoro delle lezioni imparate da chi di dovere quando verrà il momento di tornare in quei poco rassicuranti boschi norvegesi.

The Innocents - prima stagione Netflix continua ad esplorare i generi e le collaborazioni internazionali, con un thriller paranormale ambientato e girato tra Inghilterra e Norvegia. Le duplici location esercitano un fascino che contribuisce all'efficacia dello show come puro entertainment da vedere in blocco, ma non posso distogliere del tutto l'attenzione da una certa pigrizia a livello di scrittura, che si nutre del presupposto che gli spettatori guarderanno tutti gli episodi senza interrogarsi sui problemi strutturali degli stessi. Tra i maggiori punti di forza c'è la performance centrale di Sorcha Groundsell, una piccola grande rivelazione nei panni della tormentata protagonista.

7