The Stand Recensione: una grande occasione sprecata

La serie tratta dal romanzo di Stephen King non riesce a mantenere le aspettative, non evolvendo il materiale di base, né valorizzandolo.

The Stand Recensione: una grande occasione sprecata
Articolo a cura di

L'Ombra dello Scorpione è senza dubbio uno dei romanzi più amati di Stephen King. Non quello invecchiato meglio a livello di narrazione, ma senza dubbio uno dei più suggestivi e memorabili. Le vicende di un manipolo di persone sopravvissute ad un mortale virus che ha decimato la popolazione mondiale, non solo sono state il punto di riferimento per svariate produzioni negli anni, ma anche il sogno di molti registi e produttori che hanno sperato, nel corso dei tre decenni dall'uscita del romanzo, di poterlo adattare per il grande ed il piccolo schermo.

L'unico adattamento sul quale eravamo riusciti a mettere le mani prima d'ora era stato quello della miniserie in quattro parti con Gary Sinise, risalente agli anni Novanta, che ottenne un discreto successo di pubblico e di critica. Oggi, in un panorama produttivo completamente stravolto rispetto al secolo scorso e con la possibilità di realizzare progetti una volta inimmaginabili per la televisione, ecco arrivare The Stand, la miniserie in nove parti che gli abbonati Starz hanno potuto gustare a partire da gennaio.

Le prime impressioni su The Stand lasciavano intendere un grosso potenziale, offuscato dalla scelta non proprio azzeccata di ricorrere ad una narrazione per flashback, in controtendenza con l'opera di King. Le cose sono migliorate con il passare delle puntate? Decisamente no. Scopriamo il perché nella nostra recensione.

È il viaggio che conta

Uno degli aspetti più apprezzati del romanzo di King è senz'altro il dipanarsi delle relazioni tra i personaggi nel corso del loro viaggio verso Boulder e quindi alla volta di Las Vegas, dimora del male da sconfiggere per poter, si spera, prosperare. Il cammino dei sopravvissuti è il percorso stesso dei protagonisti alla scoperta di sé e degli altri. Uno dei primi passi falsi di The Stand è stato lo sfilacciare la narrazione in una serie di flashback che ne hanno rotto la linearità non solo della consecutio degli eventi, ma anche della parabola emotiva vissuta dai personaggi stessi. Chiariamoci sin da subito. The Stand è una serie godibile, molto lontana dall'essere un prodotto respingente. Ma così facendo viene a mancare quel crescendo empatico che assicura il legame con lo spettatore, appiattendo i personaggi e depotenziandone gli archi di sviluppo.

Non è un caso quindi se una delle poche eccezioni a questa regola sia l'Harold Lauder di Owen Teague; colui che forse ha goduto dell'introduzione più completa e dell'evoluzione più lineare. Se però ci confrontiamo con la sua compagna di viaggio Frannie Goldsmith, ci accorgiamo di quanto esile sia, al contrario, il suo sviluppo, soprattutto nella relazione con Stu Redman, il cui percorso presenta altrettante lacune a livello narrativo, quanto il passaggio al lato oscuro e la redenzione di Nadine Cross mancano di ben solide basi.

La sensazione generale è che la miniserie targata CBS All Acces sacrifichi in qualche modo gran parte dello sviluppo dei personaggi, pretendendo di raggiungere diligentemente gli snodi di trama necessari senza fare i conti con i tasselli narrativi altrettanto necessari per raggiungerli. A comprimere la narrazione fiume kinghiana contribuiscono ovviamente il numero ridotto di episodi - nove in totale - e una gestione maldestra di alcune fasi della narrazione stessa - un esempio su tutti il viaggio dei nostri eroi alla volta di Las Vegas, ridotto ad una serie di inquadrature suggestive con tanto di leitmotiv musicale, senza sostanzialmente far crescere o vivere i protagonisti.

Il bianco e il nero

In fondo, al di là dei limiti intrinsechi al romanzo di King, ciò che manca è un'evoluzione organica dei protagonisti, a maggior ragione in questo nuovo adattamento. La totale assenza di conflitti interni e la riduzione delle dinamiche a bene e male, giusto e sbagliato, bianco e nero, Madre Abigail e Randall Flagg, semplificano eccessivamente l'approccio e lo sviluppo di temi e caratteri. E non è certo un caso se torniamo a ribadire quanto i personaggi più interessanti siano quelli più travagliati, il che riduce sostanzialmente il campo al già citato Harold e in parte a Nadine, sebbene nemmeno lontanamente con la stessa forza, sia di scrittura che di recitazione. Questo perché la polarizzazione è netta e predefinita, anche laddove la situazione sembrerebbe in bilico, come nei casi di cui sopra. I buoni rimangono buoni e i cattivi altrettanto; non conta che siano lupi travestiti da agnelli, perché il gioco avviene sempre a carte scoperte, senza un sostrato che arricchisca alla base dinamiche e interazioni tra i singoli.

Discorso ancor più generalizzato per i numi tutelari di questi schieramenti. Madre Abigail è il faro che chiama a sé i buoni di spirito e li indirizza alla costruzione di un nuovo futuro per l'umanità. Nonostante le chiare derivazioni cattoliche, non ci sono prove da affrontare che la facciano vacillare e che mettano a rischio la comunità e, quando ce n'è l'occasione, la situazione si risolve rimarcando distintamente il confine tra bene e male.

Persino Flagg, che nella nostra anteprima aveva stuzzicato non poco l'attenzione per la caratterizzazione del personaggio ben interpretato da Alexander Skarsgard, si ritrova a poco a poco a divenire l'ombra di se stesso; pur rappresentando in maniera decente la promiscuità del lato oscuro, in fondo si adagia troppo presto sulla banalità del male, depotenziando quell'aura intravista in precedenza.

Epitome di questa dicotomia spinta è il caso di Larry Underwood, forse il personaggio che in potenza poteva meglio incarnare la speranza del conflitto. Richiamato a gran voce da Madre Abigail per guidare la comunità di Boulder, Larry subisce più volte il fascino di Flagg nel corso del suo viaggio da New York, ma in fondo la sirena di Las Vegas rappresenta più un escamotage narrativo - che ripaga in parte in termini di messinscena surreale - che una vera e propria prova da affrontare. Più convincente, ad esempio, è la tentazione di Nick Andros, nella quale il brivido della sfumatura si insinua tra le corde dello spettatore, nell'assistere al tentativo di corruzione di Flagg nei suoi confronti facendo leva sulla sua condizione di sordomutismo.

La dicotomia discussa nel precedente paragrafo fa poi sì che ci sia un'altrettanto marcata differenza di caratterizzazione tra la terra promessa di Boulder, comunità idilliaca del Colorado dove la parola di Madre Abigail è sacra, tutto funziona magnificamente e il futuro dell'umanità sembrerebbe assicurato, e l'inferno sulla terra di Las Vegas o, per meglio dire, la pallida parodia di un girone infernale rappresentata dall'amalgama di lussuriosi, ribelli e poveri di spirito che popola in maniera fin troppo democratica uno dei tanti casino abbandonati sulla Strip, servendo e riverendo l'Uomo Nero.

Il tutto si risolve però sempre e comunque in uno schieramento troppo netto, soprattutto in vista della risoluzione finale, che dimostra la fragilità di un'ossatura troppo binaria anche nei cambi di casacca, per giungere ad un inevitabile trionfo di una delle forze in gioco. The Stand è un ottimo esempio di come una produzione su vasta scala, che faccia leva su nomi di richiamo e su valori produttivi indiscutibilmente elevati, soccomba sotto il peso di una scrittura non in grado di elaborare al meglio il materiale d'origine.

Apocalisse, prego

Sembrerebbe pleonastico affermare che The Stand è una serie post-apocalittica. Il fatto è che, nonostante gli spettatori siano diretti testimoni di questa descensus ad inferos dell'umanità intera, non c'è quasi la benché minima percezione di questo processo, oltre alle gole rigonfie e al pus che intasa le vie respiratorie dei condannati. Ciò che conta è il viaggio, come scrivevamo in precedenza, e il continuo muoversi tra le timeline non solo ci preclude il sapore dello scoprire determinate, ma ci priva di quella squisita progressione che diluisce in parte i difetti dell'opera di King, rendendoci consapevoli dei pericoli del nuovo mondo, dell'evoluzione sul piano esistenziale dei protagonisti e facendoci temere per loro e per il loro destino, che rimane così incerto fino all'ultimo. Il fascino dell'apocalisse viene così spezzato e The Stand depauperato di quel sano terrore che dovrebbe sorgere da una minaccia incombente e sconosciuta come quella di Flagg, che si rivela infine la terribile balia di un branco di sbandati, fallendo nel costruire una tensione genuina, serpeggiante di sfumature.

Non aiuta nemmeno la composizione del cast, che raggiunge punte di vero e proprio miscasting con la Frannie Goldsmith di Odessa Young, mentre punta sulla rassicurante fisionomia americana di James Marsden (Stu Redman) e calca lo stereotipo negativo con Nat Wolff (Lloyd) e Katherine McNamara (Julie), non riuscendo a centrare del tutto il bersaglio con Jovan Adepo (Larry Underwood) e Nadine (Amber Heard). Il contraltare di questa non riuscitissima squadra è rappresentato dalle buone interpretazioni di Owen Teague (Harold Lauder), Henry Zaga (Nick Andros) e Brad William Henke (Tom Cullen).

Menzione speciale per l'immancabile Pattumiera, il piromane psicopatico che viene reso alla perfezione da Ezra Miller, al netto di un cambio significativo nel suo arco di sviluppo che pare una costante negli adattamenti dell'Ombra dello Scorpione. Stesso discorso per Alexander Skarsgard e per il suo Randall Flagg - con qualche riserva che affonda comunque le radici nel processo di scrittura, in frangenti nei quali anche il buon Skarsgard sembra non crederci troppo.

Rimarchiamo per onore di cronaca l'impegno profuso nella messa in scena da parte di tutti i reparti, nonostante la regia non brilli di luce propria e si appiattisca gradualmente, con alcune trovate interessanti soprattutto negli ultimi episodi diretti da Vincenzo Natali e nel pilota. Anche sotto questo aspetto si poteva quindi fare decisamente di più; per lo meno osare soluzioni e situazioni meno canoniche, che avrebbero senz'altro rappresentato un valore aggiunto. Nota di merito ai titoli di coda, davvero godibili, che raccontano a modo loro la trama e i personaggi di ogni episodio con una serie di oggetti presentati in maniera accattivante da un sottofondo musicale ogni volta differente.

Concludiamo con un piccolo appunto sul finale, scritto per l'occasione dal Re in persona, Stephen King; fattore che potrebbe rappresentare un selling point importante per i fan. Insoddisfatto dall'epilogo originale, che lasciava una Frannie spoglia del confronto con Flagg, King decide di regalare al suo personaggio un incontro ravvicinato con la nemesi di Madre Abigail, ma il risultato è un more of the same che riassume didascalicamente pregi, difetti e limiti di quanto scritto in precedenza, senza regalare grosse emozioni e una tensione calmierata dall'ineluttabilità del risultato finale.

The Stand The Stand avrebbe potuto trasportare uno dei capolavori di Stephen King nel ventunesimo secolo, sfruttandone le fondamenta per costruire un edificio migliore rispetto al romanzo, valorizzandone i pregi e sfruttandone i difetti per elevarsi ulteriormente e regalarci così un'opera memorabile; un epico scontro tra il bene e il male, ricco di conflitti e di sacrifici, per ambire ad un nuovo futuro per l'umanità decimata dalla pandemia. La parabola di King sull'ineluttabilità del male e sulla (in)capacità dell'uomo di imparare dai propri errori viene però ulteriormente semplificata a livello tematico e valoriale, facendo affidamento su una struttura non lineare che compromette l'evoluzione dei personaggi e l'empatia con lo spettatore, in un tempo oltremodo ridotto che condensa eventi e relazioni, al servizio dei principali snodi di trama, che vengono così ulteriormente depotenziati. Non basta la bontà della messinscena ad evitare che lo scontro tra due vasi non comunicanti non produca cocci affilati che danneggiano il contenuto e il risultato finale. Un vero peccato, perché bastava davvero poco a rendere più interessante, vivo e pulsante questo The Stand, al di là dello stretto necessario. Quello che ci rimane è, invece, una natura morta in bianco e nero.

6.5