Era il 1913 quando il presidente americano Woodrow Wilson, presentandosi personalmente di fronte al Congresso, inaugurò una tradizione che perdura tuttora. Lo State Of The Union, il discorso sullo stato della nazione, tra misure economiche e priorità sociali da affrontare nel corso dei mesi successivi, abbandonava la propria forma scritta e diventava un'occasione per interfacciarsi direttamente con la popolazione. Questa recensione vuole esserne una (pallida) imitazione, indubbiamente più frivola, uno "State Of The Vikings" capace di riassumere in un singolo articolo le meraviglie e le delusioni che hanno costellato la seconda parte di questa quinta stagione. Un esaustivo sommario sul recente passato, il presente ed il futuro di una delle serie più iconiche degli ultimi anni.
Una processione di personaggi
Oltre cinquecento sono i membri del Congresso, divisi tra Camera e Senato. Parimenti affollata sembra essere stata questa stagione di Vikings. Tra personaggi principali e cast di supporto, l'attenzione dello spettatore è stata duramente messa alla prova. "The bigger the better" non sembra essere una filosofia adatta a ogni situazione e una simile iper-stimolazione dell'attenzione del pubblico si è inevitabilmente tradotta in un minore affiatamento verso i protagonisti. Appaiono, sotto questo punto di vista, ancora più lontani i tempi in cui la progressione della narrazione era strettamente legata a un gruppo coeso di figure di spicco. Se da un lato l'ampliamento della platea di interpreti ha concesso spazio a personaggi fino ad allora relegati ai margini della narrazione, allo stesso tempo ha fortemente ridotto lo screen time di molti altri, inficiandone le possibilità di caratterizzazione.
La prima parte della quinta stagione aveva regalato al pubblico un interessante approfondimento del personaggio di Halfdan, inserendolo intelligentemente all'interno del più ampio arco narrativo dedicato alle esotiche avventure di Bjorn. Si trattava di una parentesi capace di far affiorare molte caratteristiche insite nel personaggio che fino ad allora erano rimaste sopite. A dominare lo schermo, nel corso di quella manciata di puntate, era infatti stata la curiosità per terre e culture lontane e il desiderio d'emancipazione dall'ingombrante, seppur amata, figura del fratello.
Ciò che una simile gestione dei personaggi porta con sé è la sensazione di un lungo viaggio nel quale in termini narrativi succede ben poco. I decorsi di personaggi come Magnus, Heahmund, Margrethe, Astrid ed Aethelred non sono infatti episodici, ma si sviluppano al contrario lungo molteplici puntate. La sovrapposizione di queste sottotramee la loro brusca conclusione rendono ancor più arrancante la progressione della storia principale, spostandone e modificandone ripetutamente il focus.
Eccellenza tecnica
Banalmente, l'episodio finale della quinta stagione ha sottolineato nuovamente quali siano le debolezze e i punti di forza della serie di Michael Hirst. Vikings si esalta nelle battaglie, nei combattimenti, tra il clangore delle spade e il frastuono degli scudi. Lo fa abbandonando qualsiasi velleità di realismo per favorire una teatralità sempre più sostenuta, così come già era accaduto con lo scontro che aveva segnato la divisione tra le due metà di stagione. Non a caso, l'assedio che caratterizza la ventesima puntata si differenzia molto dalla lunga serie di attacchi che avevano portato alla presa di Parigi nel corso della terza stagione. A controbilanciare la minore attenzione tattica nello svolgimento della battaglia è la melodrammaticità che accompagna alcune delle scene più importanti, nelle quali sangue e violenza si alternano con lunghi ed enfatici discorsi. Le battaglie finiscono così per perdere il loro valore storico per guadagnare caratteristiche mitologiche. A scontrarsi non sono più enormi eserciti su remoti campi di battaglia mentre gli scontri si restringono per concentrarsi solamente sulle sorti degli eroi più importanti. Permangono alcune delle tattiche belliche già viste nelle passate stagioni, eppure risulta difficile scrollarsi completamente di dosso l'idea che la serie abbia compiuto una decisa virata verso l'epica più che la ricostruzione storica. L'assedio di Kattegat diventa in parte l'assedio di Troia, tra intense orazioni e colpi d'astuzia per risolvere il conflitto.
Eppure, la teatralità di Vikings non risulta quasi mai fine a se stessa, così come non sembra essere relegata al semplice contesto narrativo. Si accompagna all'eccellenza tecnica che la serie continua a raggiungere stagione dopo stagione, permettendole di stabilire una propria identità (anche visiva). Risulta infatti difficile non notare la cura utilizzata nell'armonizzare trama e impatto visivo, anche attraverso una direzione artistica sempre coerente. La costante ricerca di tonalità fredde, con il dominio di palette cromatiche che dai grigi più luminosi sfumano verso il blu intenso, relaziona lo spettatore con i paesaggi e le ambientazione della serie. La stessa gestione naturalistica delle luci è frutto di attente scelte in termini di attrezzatura, dove i direttori della fotografia hanno preferito lenti come le Panavision Primo capaci di gestire ottimamente non solo la profondità di campo, ma anche la gradazione delle ombre stesse.
Risulta difficile compiere una valutazione onnicomprensiva di questa quinta stagione. Vikings, come poche altre serie sono state capaci di fare, combina in sé le più alte eccellenze e i più banali tra gli errori. Frustra lo spettatore con dialoghi e archi narrativi poco ispirati salvo poi trascinarlo nuovamente all’interno del racconto grazie alla meraviglia della sua estetica e alla spietata grazia delle sue battaglie. Rimane tuttavia indubbia la flessione qualitativa che ha caratterizzato le ultime iterazioni dello show, in cui una scrittura stanca e ripetitiva ha rischiato più e più volte di gettare lo spettatore nella più totale confusione.