Succession 4 è l'ennesimo capolavoro di HBO e non ve ne siete accorti

Succession è davvero il capolavoro di cui tutti parlano? La risposta è si, e in questo speciale vi spieghiamo i perché.

Succession 4 è l'ennesimo capolavoro di HBO e non ve ne siete accorti
Articolo a cura di

Viva il re, il re è morto. E quella che pende sulla testa della famiglia Roy è una corona pesante, attraente, ma bramata da molti. È un'eredità milionaria, un impero da possedere, ma non da spartire, in una lotta che vive dei riflessi storici di figli medievali, come quelli di Carlo Magno, che dai litigi hanno portato solo sangue, odio, rimorsi. Un destino, il loro, tutto incanalato in quella scelta di un cognome così parlante, "Roy", simile per assonanza e scrittura al sostantivo francese "roi", "re". Ma in Succession, disponibile su Sky e NOW, il trono su cui sedersi è solo uno, mentre la bramosia di potere è di tanti (ne parlavamo anche nel nostro first look di Succession 4, mentre il trailer del finale di Succession 4 è pronto a scatenare emozioni contrastanti).

Non è la famiglia della Mulino Bianco, quella creata da Jesse Armstrong e portata sullo schermo dal canale HBO. E non è nemmeno la famiglia disfunzionale, sebbene affettuosa a modo suo, tipica del cinema di Wes Anderson, o di Noah Baumbach. Quello di Succession è un covo di vipere trasformatosi in un nucleo domestico da cui si è magicamente attratti e da cui è impossibile scappare. Ed è qui che risiede la bellezza di un prodotto come questo: il senso nauseabondo e di disprezzo che aleggia e àncora ogni spettatore a Logan, Roman, Kendall, Shiv, Tom e Greg si fa carica magnetica pronta a esacerbare questo legame inossidabile, dove l'immedesimazione affettiva non dovrebbe sussistere, eppure si concretizza. Lo spettatore a livello conscio sa che non vorrebbe mai fare parte della famiglia Roy, eppure non può fare a meno dei loro litigi, dei loro tradimenti, delle loro pugnalate alle spalle.

Prendere posto al banchetto del massacro verbale

Come potremmo definire Succession? Semplice: un circolo vizioso costruito su una coltre di parole inebrianti, che come formule oscure attirano il proprio pubblico vicino all'arcolaio per fargli pungere il dito e cadere in uno stato di totale dipendenza verso un mondo respingente, eppure così accattivante.

Ogni sillaba inserita in sceneggiatura è una tessera che trova il proprio posto in un puzzle verboso ma mai noioso: una catena di enigmi nascosti dietro semplici affermazioni, frasi dalla sintattica elementare, ma celanti significati oscuri, mefistofelici, nati in seno a menti elucubranti piani e vendette, tradimenti e congiure. Le mani di Armstrong prendono in prestito quelle di drammaturghi lontani, di chi ha parlato di fratricidi e lotte intestine, di ascensione al trono e ottenimento illegittimo di potere. Succession è dunque un classico shakespeariano adattato ai tempi moderni: è la storia di Logan, Re Lear dei media televisivi, attento a non cadere vittima dell'attacco dei propri figli per quella successione attesa, promessa, e forse ancora non ereditata. Quattro stagioni: 39 episodi tutti figli diretti di uno stesso pensiero, eppure autonomi nell'ancorare il proprio pubblico a loro stessi, depredandolo come ladri gentili e assetati di successo. Non c'è una puntata in Succession che non sfrutti la potenza di un arco narrativo a se stante, in cui l'ansia, l'angoscia, e la bellezza per l'incantesimo di parole e concetti espressi con così tanta passione e intelligenza, non trovi spazio nella cornice televisiva.

Fa quasi sorridere che nella numerologia il 39 sia il simbolo della generosità e dei valori universali; un numero che invita gli uomini a risolvere i problemi dell'umanità, ma che nell'ambito di Succession si fa contenitore di egoismi ed esistenze megalomane di chi ama solo se stesso imparando a vivere parassiticamente delle gioie altrui per progredire nella propria scalata sociale.

Collage umani di perfidia e ambizione

Fratelli e figli, cugini e nipoti, amanti e traditori: nella rete famigliare dei Roy l'ambizione si mescola all'affetto, fino a infondere nelle vene di ogni membro avarizia, ambizione, narcisismo. Nessuno è vincitore o vinto, ma tutti sono schiavi dei propri inganni; sono vittime e carnefici, cacciatori e prede: ogni personaggio entra così in scena per farsi mostro di Frankenstein, un collage umano di pezzi presi in prestito dai più terribili villain shakespeariani (Claudio di Amleto, Iago di Otello, Riccardo III), e dei più ambiziosi magnati contemporanei.

Possono chiamarsi Roman, Kendall, Gregg, o Shiv, ma in ognuno di questi personaggi vive un po' di Rupert Murdoch, di Sumner Redstone e di Donald Trump. Un gioco di presta-corpo e presta-nomi dove la finzione si mescola alla realtà, assumendo una verosimiglianza tale da ridurre ogni personaggio in campo oggetto prima di odio, e poi di sublime, mefistofelico, amore. Succession piace, funziona, convince, perché mostra la parte più meschina, arrivista, egocentrica, dell'essere umano. Il concetto di famiglia per i Roy è quanto di più lontano si sia innestato nella nostra mente. Nessuna bontà acclarata, nessuna famiglia tradizionale e nessun aiuto reciproco: solo cifre, offerte, sorrisi enigmatici ed esibizioni tanto improvvisate, quanto deleterie (si pensi alla performance rap di Kendall in favore del padre nell'ottavo episodio della seconda stagione). Eppure, lo spettatore accetta di sedersi al tavolo del massacro, si fa complice di un nucleo domestico che ha perso ormai il senso di unione, supporto, comprensione, per abbassarsi al ruolo di gestore confusionario di pedine impazzite da spostare a proprio piacimento nel grande monopolio azionario.

In questa giostra al massacro azionata da regnanti senza corona, non sussiste alcun legame da conservare, o calore umano da nutrire. Nell'arco di quattro stagioni il destino della famiglia Roy si rivela dinnanzi a noi, tra tradimenti e morte poco annunciate e difficili da digerire. Un'involuzione di anime in combutta pronte a sfilare sulla linea di partenza, in una corsa alla distruzione tra consanguinei, in cui a vincere è l'ultima vittima sacrificale sull'altare del successo e alla successione.

Creare covi di vipere da amare

Ma nessuna partita può essere giocata, nessun tradimento ordito, o dolore provato, senza un corpo che si presti alla partita. E quelli di Brian Cox (Logan), Jeremy Strong (Kendall) Nicholas Braun (Greg), Kieran Culkin (Roman), Sarah Snook (Siobhan "Shiv"), Matthew Macfadyen (Tom), Alan Ruck (Connor) sono corpi svuotati dalla propria personalità, per essere investiti da quella dei loro alter-ego finzionali. Non solo contenitori di psicologie ambigue e introspettive, complesse e idiosincratiche: questi interpreti si fanno portali umani di esistenze verosimili, che vivono e sopravvivono nello spazio di visione.

Anche una volta conclusasi la loro permanenza sullo schermo, grazie a ognuno di questi attori, i membri della famiglia Roy rimangono impressi nella mente dello spettatore. Si fanno fantasmi di visioni passate e modelli di perfetta aderenza attoriale da ammirare e consegnare ai posteri con orgoglio e prestigio. Un passaggio di testimone compiuto sulla scia del realismo, facilitato da quella regia così pseudo-documentaristica che tra zoom in avanti, e movimenti di una macchina a mano libera da ogni rigidità, si sostituisce alla curiosità di uno spettatore desideroso di scrutare da vicino i propri personaggi, ricercando nelle loro mimiche facciali segni di debolezza e fallace umanità.

Galleria di fallace umanità

Nel mondo dell'immagine che danza con il sonoro, senza una bocca che le sappia proferire, e un corpo che sappia dar loro vita, anche le parole più belle, o e le battute più profonde, si ridurrebbero a segni di inchiostro su pagine perdute nel tempo.

Il cast di Succession si eleva pertanto a ulteriore elemento di forza di una serie tanto impattante sulla carta, quanto coinvolgente nella pratica. Non c'è nulla che stridi in questa saga familiare. Ogni personaggio trova il proprio modo di rivelarsi sullo schermo, tra fragilità e paure, vizi e (poche) virtù. Il tratteggio psicologico si fa linea continua di un modello pronto a uscire dalla propria bidimensionalità per incarnarsi nelle forme di uomo e donna: una disparità di genere che Succession riduce al grado 0, perché nel mondo dei tradimenti e delle ambizioni la distinzione di sesso non esiste. Come dimostrato soprattutto nella quarta stagione, che tu sia donna o uomo non fa differenza se gli occhi bruciano di rimpianti e superbia. Così complessi da sembrare reali, i protagonisti di Succession si fanno anche modelli caratteriali di un'America ipocrita, furba, autoriferita e devota al successo.

E se da una parte vi è Kendall con il suo complesso di superuomo e le sue illusioni di sognatore poco modesto, e un Roman che nasconde sotto coltri di sarcasmo le proprie fragilità e insofferenze (un carico che la quarta stagione gli permetterà di tirare fuori in tutta la sua potenza), chi davvero traina il carro dei perdenti e degli illusi è sicuramente Shiv. Donna dai tratti preraffaelliti, e dal viso che pare dipinto dal pennello di Dante Gabriel Rossetti, la piccola di casa Roy è colei che tutto muove e manipola all'ombra di occhi distratti e accecati dal proprio ego. Una Lady Macbeth nascosta nel corpo di una donna angelo che tutti inganna e manovra.

Le sue espressioni colme di sarcasmo, e i suoi occhi blu oceano, sono tentacoli che afferrano e mandano fuori campo, lasciando la vittima ignara del proprio destino. Una punta di diamante di un universo ambiguo e criptico, dove nulla è come sembra, e solo una cosa è certa: Succession è molto di più che l'ennesimo capolavoro di HBO; è un manuale di scrittura e regia, recitazione e fotografia. Una galleria di perfezione dove l'unico difetto riscontrabile è il fatto che finisca. E questa volta per sempre.

God save the Roy. Lunga vita ai Roy.