Vikings 6: analisi e considerazioni dell'epico finale di serie

Vikings ha chiuso la sua corsa con una stagione in crescendo, rendendo necessaria una discussione libera sui suoi numerosi finali.

Vikings 6: analisi e considerazioni dell'epico finale di serie
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Una delle particolarità della sesta stagione di Vikings è il contenere più finali al suo interno, oltretutto non obbligatoriamente rintracciabili tutti nella ventesima ed ultima puntata. E siamo fermamente convinti che la grandezza, nonché l'importanza, di una serie sia riscontrabile anche nella profondità dei suoi atti, se non proprio istanti, conclusivi: dalla loro intensità all'effettiva coerenza e impatto nelle rispettive storyline, fino alla quantità di significati e differenti strati interpretativi che gli si possono attribuire.

Alcune delle chiusure architettate da Michael Hirst, creatore e sceneggiatore principale di Vikings, riescono a rispondere addirittura entusiasticamente a criteri del genere, altre magari un po' meno pur nella loro generale bontà ed una nello specifico li fallisce tutti.

Non è facile discutere, nelle ovvie ristrettezze di una recensione, dell'interezza di simili questioni e perciò abbiamo deciso di ritagliare uno spazio apposito per parlarne liberamente. Se invece cercate un giudizio senza spoiler e più generale sulla Stagione 6 nel suo complesso, vi rimandiamo alla nostra Recensione di Vikings 6.

Il fantasma a cavallo

Il palese punto di partenza non può che essere il disastroso esito della spedizione russa in Scandinavia. Ciò che inizialmente sembrava una vittoria su tutti i fronti dopo il tragico mid-season finale, con il trionfo del sadico ingegno di Ivar (Alex Hogh Andersen) sull'orgoglio vichingo impersonificato da Bjorn (Alexander Ludwig), ha riservato invece un terminale sussulto quanto mai evocativo. Bjorn, infatti, risulta ancora vivo nonostante sia prossimo alla dipartita e guida per l'ultima volta l'esercito norreno, in una difesa strenua di Kattegat contro le ambizioni smodate di Oleg (Danila Kozlovsky).

L'apparizione di quello che è a tutti gli effetti un fantasma a cavallo, nel tentativo geniale di terrorizzare lo scaramantico esercito russo, è un commiato emotivamente struggente, sebbene deciso e coraggioso. Il gesto di alzare la spada dei re per segnalare l'avanzata che spazzerà via gli invasori prima di esalare l'ultimo respiro è, a nostro parere, la rappresentazione perfetta del centro nevralgico della stagione: la fine di un'era, con Bjorn muore l'ultimo straordinario eroe vichingo e tutti i valori che l'hanno reso immortale.

Nelle puntate successive, uno dei rari aspetti riusciti della storyline di Kattegat è stato proprio l'enfatizzare quanto poco sia rimasto dell'originale spirito che aveva caratterizzato le prime esplorazioni di Ragnar, Rollo e Floki. Il popolo vichingo che abbiamo imparato a conoscere a cavallo tra la quinta e sesta stagione è estremamente diverso, molto più pigro, indolente e abituato all'agiatezza. Non si sente più il bisogno di esplorare o razziare, non c'è più il bisogno disperato di sopravvivere, ma l'evoluzione ha portato ad un indebolimento dei costumi.

Persone che fino ad allora consideravano l'oro non per il suo valore intrinseco, bensì come merce di scambio per ottenere provviste cruciali duranti i rigidi inverni, ora è ossessionata dal pensiero di accumularne sempre di più - dato evidente nella storyline di Ubbe (Jordan Patrick Smith), una volta sbarcati in America. Scomparso Bjorn si conclude drasticamente un'epoca e Hirst non poteva dipingerlo in modo migliore.

Da Kiev con terrore

Non si può che proseguire con la chiusura direttamente collegata alla sconfitta russa, in quanto ne è la diretta conseguenza: Ivar e Hvitserk (Marco Ilso) ritornano sbaragliati a Kiev, tra la folla incredula che riteneva indistruttibile l'armata del Profeta Oleg. Per la prima volta, allora, protagonista assoluto è il machiavellico piano del Senz'ossa, desideroso di liberare il giovane principe Igor (Oran Glyn O'Donovan) dalle grinfie di un Oleg ormai completamente abbandonato alla sua discesa nella follia.

Un intrigo che alla fine riesce grazie al necessario aiuto di Dir (Lenn Kudrjawizki) e si chiude con la dura vendetta di Igor, carnefice ultimo di Oleg trafiggendolo con un freccia che lo fa cadere dalla balconata del suo palazzo. In poche parole nulla di realmente nuovo in Vikings, dei giochi politici piuttosto semplici cui siamo abituati fin dagli albori o quasi. Però realizzati con cura e maestria, attraverso le quali sono singole sequenze a spiccare particolarmente e non l'intreccio in sé.

Momenti come l'arrivo, gestito con colori molto più vivaci rispetto alla scala di grigi e blu che avevano dominato a Kiev, del vescovo di Costantinopoli o la fuga di Ivar e Igor mentre Oleg impersonifica Gesù nel pieno della sua passione riescono a dare un gradevole tocco di suspense. Per certi versi l'importanza di Kiev risiedeva anche in questo, nel dover dare una varietà ulteriore rispetto alle ambientazioni che i fan conoscevano già a memoria e, data l'occasione di risplendere, non ha deluso.

Inoltre sono vicende che danno forma concreta all'evoluzione di Ivar e Hvitserk, al loro rapporto e cosa vogliono dalla loro vita: Ivar, nella totale desolazione dopo l'abbandono forzato da Katia (Alicia Agneson), si rende conto di non poter far altro che tornare alle sue autentiche origini, mentre Hvitserk si incammina curiosamente su un percorso speculare, ma ci arriveremo.

Le porte dell'inferno

Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente, così recita l'iscrizione sopra la porta dell'Inferno nella dantesca Divina Commedia ed è, a malincuore, fin troppo adatta per descrivere la storyline di Kattegat. In breve, dopo la morte di Bjorn inizia una faida molto passivo-aggressiva tra le sue due mogli, Gunnhild (Ragga Ragnars) e Ingrid (Lucy Martin), fermata solo dal subitaneo ritorno di Harald (Peter Franzen), tutt'ora re eletto di tutta la Norvegia. Insediatosi quindi a Kattegat, decide di sposare proprio le due donne, rimanendo tuttavia solo con Ingrid a causa del suicidio di Gunnhild.

Partito con rinnovato vigore per una nuova spedizione in Gran Bretagna, Harald lascia la città nelle mani di Ingrid e di Erik il Rosso (Eric Johnson), finché quest'ultimo non viene ucciso dalle trame orchestrate dalla bionda strega che aveva conquistato persino Bjorn. All'apparenza sembra materiale standard per Vikings, ma mai come ora è apparso stanco, ripetitivo, vuoto, privo di protagonisti davvero carismatici al centro di un intreccio portato avanti per mera inerzia.

Desolante, stantio, incapace di avere un minimo impatto sulle trame generali della stagione e a tratti persino confusionario, con personaggi che mutano continuamente alleanze senza motivi o altri che fino a quel momento avevano dimostrato comunque un po' di onore e coraggio, improvvisamente scomparsi per far luogo ad un susseguirsi lento e noioso di tradimenti, uccisioni, complotti.

Hirst stesso avrà certamente notato l'assoluta insufficienza di questa storyline, relegandola nelle puntate finali a pochissimi minuti su schermo. L'unico momento in cui si riesce ad intravedere faticosamente un po' di cuore è il suicidio di Gunnhild, vogliosa di riabbracciare Bjorn il più presto possibile. Ma si tratta di un'eccezione, una fievole luce ben realizzata tra la città dolente di un arco narrativo scellerato.

Fratelli fino alla fine

E così si giunge ai due finali più corposi e complessi. Partiamo da Ivar e Hvitserk, di ritorno a Kattegat in seguito al rovesciamento di Oleg, accolti non proprio calorosamente dal popolo. Specialmente lo storpio viene subito preso di mira, poiché il ricordo della sua disumana tirannia è ancora troppo forte. Nonostante ciò, Harald li accoglie e, nella noia di un'esistenza piatta e agiata, i due fratelli iniziano un intricato percorso interiore fatto di rimpianti, dubbi e delusioni.

E qui si apre una delle operazioni più suggestive che Hirst ha messo in campo, ovvero l'unione-divisione dei due fratelli: Ivar sente il bisogno di concludere qualcosa, di realizzare un'impresa che lo renderà immortale come più volte gli aveva suggerito Ragnar nel Wessex; Hvitserk, d'altro canto, fatica sempre di più a riconoscersi, a comprendere quale sia il suo destino e si mostra convinto di aver sprecato la sua esistenza, di aver abbandonato il suo fratello preferito - Ubbe - e di non meritarsi l'appellativo di figlio di Ragnar. Allora Ivar condanna apertamente davanti a Harald lo stile di vita condotto dai cosiddetti vichinghi e incita una definitiva invasione della Gran Bretagna, poiché il Wessex è ancora vivo e vegeto.

Se vi proclamate vichinghi, allora dovete agire come tali, urlerà Ivar. Si da il via quindi ad una serie di eventi molto nota ai fan di Vikings: la partenza, lo sbarco, la costruzione di un accampamento, qualche schermaglia con l'esercito britannico, discussioni sulle tattiche da applicare, sfocianti in una prima battaglia campale ancora una volta sorprendente nel suo svolgimento grazie all'ingegnoso piano dei figli di Ragnar. Sembra una vittoria annunciata, ma poi qualcosa inspiegabilmente si rompe ed inizia un circolo vizioso che porterà l'armata vichinga alla disfatta, con tanto di morte di Ivar e cattura di Hvitserk. Non è immediatamente facile capire cosa sia passato nella mente dello storpio, soprattutto visti i continui avvertimenti del fratello sulla sua salute cagionevole.

Siamo convinti, però, che Ivar, dopo l'iniziale successo, abbia di nuovo percepito l'inutilità di questa impresa. York, Kattegat, Kiev, tutti luoghi in cui in un modo o nell'altro ha posto il suo sigillo. Tuttavia, a cosa ha portato? Niente, è stato sempre cacciato via, rifiutato ed umiliato. La dura realtà è che non c'è un posto adatto a lui nel mondo. Dunque cosa rimane? Morire da vichingo nel modo più dignitoso possibile, letteralmente guidando i suoi uomini in mezzo ad una battaglia che, con il suo acume tattico, aveva già battezzato come persa. Sapendo, infine, che la sua eredità sarà portata avanti dal figlio avuto con Katia, per quanto possibile.

Solo così si può capire il senso del finale, squisitamente speculare, di Hvitserk. Ubbe è lontano, Bjorn e Ivar sono morti, cosa resta? L'essere marchiato per sempre come l'uomo che ha ucciso Lagertha dal suo popolo? Ritornare ad essere un disperato e mantenuto ubriacone tossicodipendente? Già a Kiev, per un breve istante, Hvitserk aveva assaporato l'idea di cambiare radicalmente identità, fidarsi di Oleg e seguirlo nelle sue imprese, prima di tornare al rapporto ossessivo con Ivar. Ma adesso anche questo è svanito, nulla lo ferma dal rinunciare alla sua vita, poiché è perfettamente consapevole che come Hvitserk, figlio di Ragnar, ha fallito ed, anzi, è stato una vergogna.

Si fa battezzare da Re Alfred e cambiare il nome, che da ora sarà Athelstan. Magari un richiamo fin troppo lampante e per certi versi ingiustificato, messo in campo solo per aumentare l'impatto emotivo della scena, ma comunque un finale ben orchestrato. Piccola ma dovuta chiosa su Harald: stanco di regnare nonostante fosse il suo obiettivo di vita, muore nella prima grande battaglia, cantando di nuovo, morente e affiancato dallo spirito del fratello Halfdan, i versi di Egill Skallagrimsson. Semplice, coerente, meraviglioso.

Un nuovo mondo

Rimane solo il fato di Ubbe, in una storyline che eccentricamente mette in luce il peggio e il meglio dell'ultima stagione di Vikings. Lo ritroviamo, infatti, in Islanda, voglioso come non mai di partire alla volta della terra dorata descritta dal misterioso Othere (Ray Stevenson), seppur turbato dalla crescente instabilità di Ketill (Adam Copeland). La spedizione parte tra mille dubbi ed incognite, affidandosi totalmente al mare - We commit our bodies to the deep, riassume magnificamente Othere. Però invece di sbarcare nel paese ricco e fertile descritto dal viaggiatore, il gruppetto finisce sperduto su un'altra landa desolata e sterile, in seguito chiamata ironicamente Groenlandia - in inglese Greenland, terra verde.

Qui si ripete, ancora una volta come se il messaggio non fosse già chiaro, il ciclo di violenza ed avidità che Floki aveva condannato in Islanda, riproposto senza alcuna reale differenza o novità. Una balena spiaggiata finisce sulla terra di Ketill che nega ogni volontà di dividerla con l'insediamento, si proclama violentemente Re della Groenlandia e un gruppo di sopravvissuti guidato da Ubbe e Torvi (Georgia Hirst) fugge, cercando fortuna di nuovo nel mare.

Noioso, ripetitivo e prevedibile, con tematiche e avvenimenti che potevano essere già proposti durante il soggiorno in Islanda, oltretutto con più suspense ed efficacia. Poi la scintilla si accende, Ubbe sbarca in America e per la prima volta i vichinghi dialogano con una tribù indiana. Esteticamente Vikings sembra trasformarsi in un'altra serie, la delicatezza dell'approccio tra questi due mondi distanti è quasi commovente: conversazioni pacifiche fatte di gesti, scambi entusiastici tra le due culture, un mondo sterminato e sconosciuto a portata di mano.

La serie si allontana dalla sua lunga storia iniziata ormai 7 anni fa ed è come se fosse tornata bambina, in quanto le singole inquadrature sono permeate dall'entusiasmo di un fanciullo che ad ogni angolo fa scoperte stupefacenti. E ad un certo punto un'indiana pronuncia una parola norrena, imparata da un vecchio uomo pazzo che vive su una complessa abitazione su un albero.

Floki è vivo e vegeto e il suo cambiamento è semplicemente magistrale: disinteressato a tutto e per questo finalmente in pace con sé stesso, distante dal sangue e dalla violenza, lontano dall'ossessiva ricerca degli Dei priva di scopo in un tutt'uno con l'ambiente e la gente che lo circonda. Un eremita spinto solo dalla sua infinita curiosità e abbandonato totalmente alla marea del suo destino, qualunque esso sia. Non gli importa di altro, perché questa è la terra pienamente diversa che lui sognava ed ha compreso che il segreto era dimenticarsi di tutto quello lasciatosi alle spalle.

Non c'è altro modo e quando la violenza fa la sua comparsa in America - a causa di un vichingo alla disperata ricerca di oro e macchiatosi di omicidio - è esattamente ciò che consiglierà a Ubbe.

Qualunque decisione prenda, deve essere distante dai vecchi costumi. Il figlio di Ragnar inizialmente non lo ascolta, preferendo punire il colpevole con le leggi vichinghe e dunque un'aquila di sangue. Al momento decisivo, però, Ubbe si ferma, limitandosi a sgozzare l'omicida. Vikings, con una tale immagine, chiude la sua eminente parabola ponendo un interrogativo: è davvero possibile liberarsi di noi stessi? Esiste realmente la possibilità di allontanarsi dagli errori del nostro passato e creare qualcosa di differente, migliore, utopico? O siamo condannati a riviverli per sempre, pagando prezzi sempre più cari e rovinando ogni scoperta?